Il diario di Eva Trotta
Diari di terra di Eva Trotta edito da Giazira scritture è una lettura insolita, affascinante e stimolante. Partiamo dall’autrice, giovanissima (classe 1997) e con un bagaglio di esperienze di tutto rispetto. E’ un’infaticabile viaggiatrice e si è sempre appassionata alle questioni che riguardano i diritti civili. Nel 2019 collabora con Medici per i Diritti Umani (MEDU) a Roma, dove lavora a contatto con le vittime di traffico umano e testimoni di torture in Libia. Nell’estate dello stesso anno partecipa come operatrice volontaria al progetto Terragiusta in Capitanata e conduce le ricerche per la sua tesi
di laurea. Da questa esperienza nasce Diari di terra con l’obiettivo di scardinare una serie di pregiudizi sugli immigrati ma anche sui giovani e la loro mancanza di visione. Il libro vuole non solo raccontare un’esperienza personale, ma innanzitutto spingere alla riflessione su temi sociali di grande importanza.
In questa intervista, Eva Trotta, che ci racconta le sue esperienze, il mondo dei migranti e il perchè, secondo lei, i pregiudizi ingessano le nostre esistenze e la nostra visione del mondo.
Diari di terra di Eva Trotta
Il tuo libro ha l’obiettivo di far crollare una serie di pregiudizi molto radicati nella nostra società. Cosa ti ha spinta a scrivere questo “diario”? C’è stato un evento che ha fatto scattare la miccia?
Non c’è stato un evento in particolare, piuttosto un susseguirsi di momenti all’apparenza insignificanti che mi hanno portato a riflettere sui pregiudizi e sul loro ruolo nella mia vita e nella società. Ho cominciato a vedermi un po’ come una marionetta i cui fili che ne determinano i movimenti sono i pregiudizi: quelli che ci accompagnano sempre e da sempre, quelli che continuamente creiamo e che, come i fili di una marionetta, influiscono inevitabilmente sui nostri comportamenti, sui nostri pensieri, sulle nostre relazioni e sulla nostra visione del mondo. Questa presa di coscienza mi ha ricordato che avere il controllo della mia marionetta e dei suoi fili (e non viceversa) e mi ha dato strumenti in più per conoscermi meglio, per migliorarmi e crescere a livello individuale e collettivo. Ho così potuto fare un passo indietro e mettermi in discussione e (ri)scoprire che la mia conoscenza del mondo è ben più limitata di quella che spesso mi illudo di avere. Sono stata scossa; eppure, ritrovarmi nel torto e scontrarmi ancora e ancora con la certezza che nulla è certo o nel mio controllo, mi ha restituito un barlume di speranza nell’umanità.
Con Diari di Terra ho cercato di trasmettere questa sensazione dolceamara di riscoperta e impotenza. La Capitanata mi ha insegnato nel modo più vero che nessuna storia è come un’altra, ogni storia merita di essere raccontata e ascoltata: tutto è unico, relativo e degno di attenzione. Questo è Diari di Terra: pagine scritte dalla mia penna, ma raccontate dalla moltitudine di storie, luoghi, volti che mi hanno travolta con il loro essere imprevedibilmente umani, aldilà di ogni certezza, di ogni stereotipo, dove comincia la bellezza e si esauriscono le parole.
Tra i temi trattati nel suo libro, qual è quello che secondo te necessita urgentemente di confronto e riflessioni?
È buffo pensare che per molto tempo non ho mai dovuto preoccuparmi dei miei privilegi o di quelli altrui, mentre c’è chi ci deve convivere ancor prima di essere messo al mondo. Ogni giorno in Capitanata mi ritrovavo inevitabilmente catapultata a fare i conti con i miei privilegi: poter decidere di informarmi su un argomento e poter scegliere da una immensità di mezzi come farlo, essere in buona salute e poterla mantenere senza troppe difficoltà, poter votare per i miei governanti e avere ampia libertà di oppormi o esprimere dissenso, poter viaggiare liberamente e con poche restrizioni economiche o legate alla mia nazionalità, poter dare per scontato il concedermi sporadici lussi. Pensavo: perché se un cittadino europeo si trasferisce a lavorare all’estero viene considerato un expat e invece un cittadino di paesi terzi viene automaticamente classificato come clandestino indipendentemente dai motivi e dai mezzi con cui ha lasciato il suo paese? Perché è così semplice per me volare da un continente all’altro, senza dover dare spiegazioni a nessuno, e invece c’è chi dopo aver messo a rischio la propria vita deve mettere la propria credibilità sotto giudizio per poter calpestare un suolo sicuro? Non mi è mai stata negata un’offerta di lavoro o la possibilità di affittare una stanza per via del colore della mia pelle, della mia nazionalità, del mio orientamento sessuale o religioso. Non mi sono mai sentita sottorappresentata guardando la TV o comprando prodotti di cosmesi. Nessuno ha mai dubitato di me se all’uscita di un negozio suonava l’antitaccheggio. Non provo timore alla vista delle forze dell’ordine. Se mai mi consideravo “meno fortunata” in determinati contesti o situazioni, mi rendevo conto che il più delle volte quello svantaggio non faceva che amplificarsi al variare del colore della pelle, della nazionalità, della posizione geografica.
Allo stesso tempo mi stupivo e mi smentivo nel rendermi conto di quanto nonostante i privilegi, le libertà e gli stereotipi, le persone che incontravo non erano affatto sprovvedute. Ho incontrato ragazze madri che erano felici di esserlo e non si sentivano vittime della loro scelta o di qualche perverso meccanismo sociale. Ragazzi analfabeti che parlavano una moltitudine di lingue e che avevano una conoscenza degli usi delle piante medicinali pari a quella di un botanico. Non non mi sembravano devastati dalle direzioni che avevano preso le loro vite; quello che però sembrava provarli davvero era sapere di essere nella parte fortunata del mondo, ma con un bagaglio di privilegi troppo piccolo per farsi spazio senza dover lottare quotidianamente, per essere visibile senza sentirsi alieni, per meritarsi rispetto e dignità.
Dobbiamo impegnarci ad accettare e riconoscere i nostri privilegi, comprenderne le origini e quindi imparare ad utilizzarli a favore di chi non ha altrettante libertà, perché questa cominci ad essere distribuita più equamente. Dobbiamo smettere di trattare quello dei privilegi come un argomento tabù, dobbiamo smettere di cullarci nel senso di colpa e nella pietà. È bello dirci antirazzisti o a favore di chissà quali alti ideali, ma la vera sfida è ammettere a noi stessi e al mondo di avere un bagaglio di fortuna che era già bello e impacchettato per noi prima che nascessimo e di essere parte, seppur inconsciamente e con le migliori intenzioni, di meccanismi che non fanno che perpetuare discriminazione. Forse non estingueremo mai le disuguaglianze che sono al mondo, ma questo non deve fermarci dal migliorarci: la chiave è avere l’umiltà di interrogarsi sempre.
l tuo libro è un diario della tua esperienza in Capitanata al fianco degli immigrati e del loro sfruttamento nei campi. Chi vive, come te, le storie di queste persone, si porta a casa inevitabilmente tanto dolore. Tu riesci a tutelarti da queste ondate emotive così forti?
Ho la fortuna di aver ricevuto una formazione accademica che ha molto insistito sulla sensibilizzazione al benessere psicofisico dei lavoratori del settore umanitario e alla divulgazione di misure atte alla prevenzione delle varie forme e sintomi di disturbi da stress post-traumatico. Ho capito che se voglio potermi prendere cura dell’altro efficacemente ho la responsabilità di prendermi cura di me stessa, stabilire e rispettare i miei limiti, fare un passo indietro quando necessario, etc. Forse tutelarmi non è il termine che più si avvicina alla realtà dei fatti: purtroppo o per fortuna non posso definirmi “immune” al dolore. Tuttavia imparo ogni giorno ad accogliere il dolore e a trarne il meglio con umiltà e gratitudine: per quello che insegna, perché porta sempre qualcosa di nuovo, per la spinta che mi dà.
In Diari della terra affronti diversi temi importanti. Qual è quello che ti ha coinvolta di più? E perché?
Non posso fare a meno di associare i miei ricordi della Capitanata a due temi per me indivisibili: fragilità e dignità.
Ho incontrato fin troppa fragilità psichica, anche e soprattutto tra giovanissimi, e sin da subito mi è stato chiaro che alla radice di questa sofferenza vi erano i soprusi subiti in viaggio, esacerbati dalla precarietà e dalla alienazione degli insediamenti informali, dal non avere scelta e dalla volatilità di una vita in bilico per un pezzo di carta.
Ma questo non è tutto. Ho visto le ferite più profonde emergere dall’umiliazione di realizzare di essere “vite di serie B”. Non puoi che sentirti considerato tale, se a pochi metri dal tuo accampamento di fortuna c’è una villa con piscina. Se il mondo sembra ricordarsi brevemente di te solo con gli slogan che i politici usano per farsi belli nei loro comizi o nei titoli in prima pagina che vogliono stupire di fronte all’ennesimo incendio. Se alla tua disperazione non è concesso nemmeno il silenzio, perché deve soddisfare e intrattenere giurie di spettatori intransigenti. Se sei tu l’imputato delle colpe altrui, colui che deve farsi carico del senso di colpa e della presunzione di chi ti ha fatto sentire inferiore. Se la tua vita acquisisce più valore solo quando cominci ad abbandonare te stesso per conformarti alla maggioranza.
Gli abusi di potere sulla rotta balcanica, le torture delle milizie in Libia, i naufragi nel Mediterraneo, il traffico umano nel Sahara e la diffusione dei muri di contenimento non sono pratiche barbare: hanno il marchio Made in Europe. Comprendere quanto siano normalizzate e diffuse le violazioni di diritti umani, del “diritto di essere umani”, è disarmante, ma ci riguarda tutti egualmente e in maniera ravvicinata: finché tutti non potranno godere ugualmente degli stessi diritti, nessuno ne godrà davvero. Anche se non siamo sempre in possesso degli strumenti per opporci alle politiche antietiche, nella nostra quotidianità abbiamo il dovere perentorio di impegnarci a rispettare l’umanità di TUTTI coloro che subiscono queste politiche sporche.
Che progetti hai per il futuro?
Nel futuro più immediato intendo dedicarmi con la dovuta diligenza ai miei studi e sfruttare al massimo la fortuna di aver avuto accesso ad una educazione di così alto livello. Aspiro un domani a lavorare con corpi internazionali per la difesa dei Diritti Umani, in progetti rivolti alla tutela delle comunità migranti e alla cooperazione per lo sviluppo sostenibile. Spero un giorno di poter restituire alla mia Terra tutto quello che mi ha dato e che ha perduto.