(Adnkronos) – Il depistaggio sulla strage di Via D’Amelio “c’è stato” e la responsabilità “è dei poliziotti che non lo hanno fatto per una banale voglia di fare carriera ma per agevolare Cosa nostra. Un tradimento che non può essere perdonato”. Ecco perché i tre poliziotti sul banco degli imputati “vanno condannati”. A pene pesanti. Il procuratore generale di Caltanissetta, Fabio D’Anna, al termine di una requisitoria fiume, ha chiesto 11 anni e 10 mesi di carcere per Mario Bo e 9 anni e 6 mesi ciascuno per Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo.
“Le indagini, fin da subito dopo la strage, hanno subito un inquinamento probatorio”, dice il Procuratore generale D’Anna. Che tira in ballo anche l’apparato dello Stato. Cioè i magistrati che 30 anni fa si occuparono delle indagini. “Leggendo la sentenza ci accorgiamo e non possiamo esimerci nel dire che a questo inquinamento probatorio ha contribuito anche il comportamento di alcuni colleghi. Colleghi poco attenti che non sono stati in grado di cogliere elementi di indici di falsità dell’ex collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino”, dice.
“C’è stato un tradimento da parte degli apparati dello Stato che hanno tradito non solo Borsellino ma anche gli agenti della scorta. Un tradimento che non può essere perdonato. Si può tradire per tanti motivi: per soldi, sì ce ne sono stati nei confronti di La Barbera ma non nei confronti degli odierni imputati, per la carriera, ma La Barbera non ne aveva bisogno, era ancora giovane e a breve sarebbe diventato questore, che motivo aveva di impelagarsi con un balordo come Scarantino”.
“Un altro motivo – ha continuato – poteva essere il fatto che occorreva dare un colpevole da dare all’opinione pubblica: ma perché Scarantino? Cioè l’unico che faceva parte di una famiglia che non c’entrava. Ma perché lui? La risposta me la sono data: l’unico interesse che spiega la pervicacia del gruppo Falcone-Borsellino è che loro sapevano perfettamente che con il loro comportamento stavano allontanando dalla verità delle indagini, vuoi per proteggere apparati dello Stato vuoi per proteggere apparati mafiosi”.
Loro, gli imputati, “non sono, però, gli unici demoni”. “Sul banco degli imputati la fila di demoni dovrebbe essere lunga, ma o sono morti o l’hanno fatta franca”, dice il pm Maurizio Bonaccorso, applicato alla Procura generale. “Ci sono vertici e soggetti che l’hanno passata liscia e sappiamo chi sono”, aggiunge. E poi sottolinea: “Ci sono una serie di elementi che danno certezza del coinvolgimento di figure istituzionali nell’eliminazione del dottore Borsellino”.
Secondo il sostituto procuratore generale Gaetano Bono, la sentenza di primo grado era “contraddittoria, illogica, iniqua e fuorviante”. Perché i poliziotti sul banco degli imputati, oggi tutti in pensione, hanno deliberatamente depistato le indagini sull’attentato a Paolo Borsellino. “Il regista del depistaggio fu Arnaldo La Barbera, morto alcuni anni fa da osannato investigatore antimafia”, aggiunge il pg Gaetano Bono, che al momento della strage era ancora una bambino di nove anni.
Dice: “Si registra una illogicità della sentenza di primo grado che a distanza di poche pagine traccia un quadro incoerente sull’attendibilità di Vincenzo Scarantino”, il falso collaboratore di giustizia che fece condannare sette innocenti, dice Bono che cita alcune frasi della sentenza di primo grado. I giudici scrivono: ‘E’ da ritenersi sussistente un nucleo di limitata attendibilità’, e Bono elenca “4 punti”. “Poi, a distanza di diverse pagine la sentenza afferma che ‘Scarantino è pienamente attendibile ove evidenzia un indottrinamento fin dal primo interrogatorio del giugno 1994′”, dice il pg.
In quanto la “pronuncia assolutoria è incoerente”. Per l’accusa la “contraddittorietà riguarda l’associazione mafiosa che è la questione più importante di tutto il processo. Si ritiene sussistente la circostanza aggravante che permetterebbe alla Corte di pronunciarsi sulle responsabilità di Mario Bo e Fabrizio Mattei ma anche su quella di Michele Ribaudo”.
Secondo Bono “siamo in presenza di una motivazione insufficiente”. Il pm Maurizio Bonaccorso spiega nel suo lungo intervento: “Solo dopo la morte di Arnaldo La Barbera si scoprì che c’era un rapporto di collaborazione tra il poliziotto e il Sisde, da cui emerge che la Barbera aveva intrattenuto un rapporto di collaborazione dal febbraio 1986 al marzo 1988, con nome in codice ‘Rutilius’, mentre era dirigente della Squadra mobile di Venezia”.
L’ex dirigente ed ex questore di Palermo “era pagato in nero, e non per pagare i confidenti ma per esigenze personali, perché amava stare in albergo”, dice Bonaccorso . “Una situazione di una gravità inaudita un dirigente che viene finanziato in nero dai Servizi segreti”, aggiunge il pm. E se la prende con la sentenza di primo grado che “ha minimizzato un dato molto importante”. Poi sottolinea che Arnaldo La Barbera “era a libro paga dei Madonia”.
“La Barbera aveva un tenore di vita altissimo. Abbiamo accertato che versava continuamente soldi sul suo conto corrente. In un anno circa 100 milioni di vecchie lire. Difficile credere che si potesse trattare di trasferte. Neanche avesse fatto il giro del mondo. Quello che è significativo sono le modalità in cui questo contante viene versato.
Nel ’91 c’è un solo versamento di 8 milioni di lire, nel ’92 questa persona di colpo cambia abitudini rispetto alla sua attività bancaria e comincia a fare versamenti continui per importi davvero consistenti. Certamente non sono tutti proventi illeciti ma questo dato ci conferma quello che hanno detto i collaboratori Vito Galatolo e Francesco Onorato e cioè che La Barbera era a libro paga dei Madonia. Quindi abbiamo un personaggio ambiguo che da un lato viene costantemente finanziato dal Sisde.
Dall’altra parte abbiamo i collaboratori che ci raccontano di un rapporto con la mafia”. Ribadisce poi che la “collaborazione tra la Procura di Caltanissetta e il Sisde nacque dall’ostinazione del Procuratore Tinebra”. Il magistrato parla di una “anomala collaborazione, per non dire inquietante, tra la Procura di Caltanissetta e il Sisde nella fase iniziale delle indagini”.
Poi, rivolgendosi alla difesa dei tre imputati dice: “Mi auguro di non sentire frasi da parte della difesa, sul fatto che si processano i morti, chi non è in grado di difendersi, sugli schizzi di fango, così come fatto in primo grado. Perché al di là delle frasi ad effetto mi piacerebbe capire cosa dovrebbe fare un pubblico ministero quando c’è l’ipotesi di un’azione delittuosa concorsuale nel momento in cui la figura centrale è deceduta. Dovremmo archiviare anche per gli altri? E nemmeno si possono omettere tutte le argomentazioni che riguardano la figura centrale”.
Poi dice: “Ho il rammarico che, purtroppo, in questo processo non è stato possibile effettuare la discovery completa degli elementi finora emersi, e mi auguro che un giorno non dovremmo mangiarci le mani in relazione all’esigenza di preservare un indagine in corso”. Il magistrato fa riferimento all’inchiesta sull’agenda rossa e sulla documentazione ritrovata a casa dell’ex dirigente della Squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. A settembre del 2023 un teste aveva detto: “A casa dei familiari di La Barbera c’è l’agenda rossa di Paolo Borsellino”.
”Le anomalie riguardano soprattutto il 1992, la Guardia di finanza ha accertato una sperequazione di circa 97 milioni rispetto al reddito percepito”. Nel corso della lunga requisitoria la Procura generale è tornata a parlare dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. “In questa agenda lui annotava una serie di riflessioni sulla strage di Capaci nella speranza di essere sentito a Caltanissetta”, dice il pm Maurizio Bonaccorso.
“La signora Agnese Piraino, vedova di Paolo Borsellino ha spiegato che, nella certezza di essere ucciso, Borsellino aveva cominciato a usare due agende, quella grigia e quella rossa, dove annotava sue riflessioni spiega la Procura generale – Il secondo dato è la presenza dell’agenda rossa nella borsa di Borsellino il 19 luglio 1992. Abbiamo sul punto le dichiarazioni della figlia, Lucia Borsellino, che ci dice: ‘Papà aveva tre agende, una marrone, dove metteva qualche dato e numeri di telefono, l’altra grigia, dove annotava alcune cose, e quella rossa che per lui era importantissima’. Quella mattina aveva portato l’agenda con sé perché non verrà ritrovata a casa dei familiari”.
Dopo la richiesta di condanna ha preso la parola l’avvocato di parte civile Giuseppe D’Acquì che rappresenta due dei sette innocenti condannati ingiustamente, Natale Giuseppe Gambino e Gaetano Scotto. Il processo è rinviato al prossimo 23 aprile per sentire le parti civili. (dall’inviata Elvira Terranova)
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