(Adnkronos) – Al via, domani, davanti alla Corte d’Appello di Caltanissetta, il processo di secondo grado del cosiddetto depistaggio sulle indagini sulla strage di via D’Amelio, in cui furono uccisi, il 19 luglio del 1992, il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta.
Davanti alla Corte nissena si ritroveranno nuovamente alla sbarra i tre poliziotti accusati di concorso in calunnia aggravata dall’avere agevolato Cosa nostra. A rappresentare l’accusa sarà il neo Procuratore generale Fabio D’Anna con i sostituti procuratori generali Antonino Patti e Gaetano Bono. Sarà applicato dalla Procura anche il pm Maurizio Bonaccorso, che ha rappresentato l’accusa in primo grado, dopo l’addio di Stefano Luciani e Gabriele Paci, andati rispettivamente a Roma e Trapani.
Nella sentenza di primo grado, emessa il 12 luglio del 2022, era caduta l’aggravante mafiosa per due dei tre poliziotti imputati del processo depistaggio Borsellino: prescritti i reati per Mario Bo e Fabrizio Mattei, mentre Michele Ribaudo era stato assolto. Il poliziotto Ribaudo era stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”.
Erano tutti accusati di concorso in calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. E, in particolare, per aver contribuito a “vestire il pupo”, ovvero a “costruire” il falso pentito Vincenzo Scarantino. Per Bo il procuratore Salvatore De Luca e i sostituti Stefano Luciani e Maurizio Bonaccorso avevano chiesto 11 anni e 10 mesi di carcere, per gli altri due imputati 9 anni e mezzo.
L’ennesimo processo per tentare di fare luce su quanto accadde alle 16.58 di 31 anni fa ma soprattutto nelle ore a seguire. Cinque processi in trentuno anni, che diventano quattordici se si contano anche gli appelli e le decisioni della Corte di Cassazione. Oltre trenta giudici si sono espressi su quanto avvenuto in via D’Amelio.
Sono state emesse condanne, anche all’ergastolo, assoluzioni, e c’è stata una revisione per delle condanne a vita inflitte ad innocenti che nulla c’entravano con la strage in cui furono uccisi il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Depistaggio Borsellino
A cambiare le sorti dei processo sulla strage di via D’Amelio è stato il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, che ha iniziato a raccontare particolari sull’attentato e a dire, con forza, che Vincenzo Scarantino aveva raccontato ai magistrati solo fandonie. Perché “non poteva sapere nulla di quella strage”.
Sono state passate così al setaccio le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza. Che ha raccontato tanti dettagli, negli anni tutti ritenuti veritieri dai giudici. I magistrati e gli investigatori della Dia di Caltanissetta iniziarono così a conoscere i retroscena della strage Borsellino, organizzata dal clan mafioso di Brancaccio, diretto dai fratelli Graviano.
Ma con un mistero: chi era l’uomo che il giorno prima della strage avrebbe partecipato alle operazioni di caricamento dell’esplosivo sulla 126, in un garage di via Villasevaglios, a Palermo? Spatuzza ha sempre detto di non conoscerlo. Forse appartiene, pensano i magistrati, ai servizi segreti. A confermare le parole di Spatuzza sugli esecutori della strage di via D’Amelio è la confessione di chi si era accreditato come collaboratore di giustizia attendibile, depistando le indagini sull’eccidio del 19 luglio 1992.
Soltanto nel 2017, con l’esito del processo Borsellino quater primo grado e quello del processo di revisione, si è conseguita la certezza della “inattendibilità inconfutabile ed irreversibile” di Scarantino, di Andriotta e degli altri collaboratori a loro legati. Dunque l’incontestabile falsità delle rispettive propalazioni.
La Corte di Cassazione nel processo Borsellino quater scriveva: “La strage di via d’Amelio rappresenta indubbiamente un tragico delitto di mafia, dovuto a una ben precisa strategia del terrore adottata da Cosa Nostra, in quanto stretta dalla paura e da fondati timori per la sua sopravvivenza a causa della risposta giudiziaria data dallo Stato attraverso il ‘maxiprocesso’, potendo le emergenze probatorie relative a quelle ‘zone d’ombra’ indurre, al più, a ritenere che possano esservi stati anche altri soggetti, o gruppi di potere, interessati alla eliminazione del magistrato e degli uomini della sua scorta”.
Processo d’appello
La Cassazione ha così confermato le condanne all’ergastolo per i boss palermitani Salvatore Madonia e Vittorio Tutino, condannando per calunnia i falsi collaboratori di giustizia Calogero Pulci e Francesco Andriotta (per quest’ultimo con un lieve sconto di pena di 4 mesi) confermando la sentenza emessa dalla Corte d’assise d’appello di Caltanissetta nel novembre 2019. Nel luglio 2022 è arrivato il quattordicesimo giudizio. Sul “più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana”.
Nelle motivazioni, i giudici di primo grado hanno ribadito che “non è stata Cosa nostra a fare sparire, dopo la strage di via D’Amelio, l’agenda rossa di Paolo Borsellino”. Mentre la Procura di Caltanissetta, guidata da Salvatore De Luca, nei motivi di appello, firmati con il pm Maurizio Bonaccorso, ha sottolineato che “Il movente della sottrazione di un reperto così importante” come l’agenda rossa di Paolo Borsellino “da parte di soggetti che per funzioni svolte erano legittimati ad intervenire e operare sul luogo della strage e quindi esterni alla consorteria mafiosa, non può essere altro che quello di sviare le indagini, nel senso di impedire che le investigazioni potessero fuoriuscire dal perimetro delimitato dalla matrice esclusivamente mafiosa dell’attentato di via D’Amelio”.
La procura
“I comportamenti tenuti dal dirigente della Squadra mobile” Arnaldo La Barbera “risultano eccessivamente sospetti e inducono ragionevolmente a ipotizzare un ruolo del dottor La Barbera per la sottrazione dell’agenda rossa. Se realmente la spinta psicologica del dottor La Barbera nell’azione illecita che ha portato alla creazione di tre falsi collaboratori di giustizia – hanno spiegato i pm – fosse stata soltanto quella di ‘potere mantenere e accrescere la propria posizione all’interno della Polizia di Stato’, come ritiene il Tribunale, allora si sarebbe dovuto assistere a iniziative e comportamenti totalmente diversi, con sforzi investigativi orientati a cercare di fare luce anche sul mistero dell’agenda rossa”.
Per la Procura di Caltanissetta “la chiave di lettura alle incomprensibili condotte e reazioni del dottor La Barbera su questa specifica vicenda allora non può essere altra che quella del mantenimento delle indagini all’interno del ‘perimetro’ mafioso della strage”. Nei motivi di appello del processo depistaggio Borsellino De Luca e il pm Maurizio Bonaccorso hanno poi scritto: “Singolari anomalie in occasione di alcune telefonate effettuate dal falso pentito Vincenzo Scarantino mentre era a San Bartolomeo al Mare dopo avere collaborato con la giustizia”. E ancora: “A fronte di circa 280 eventi telefonici verso utenze in uso ai familiari e al difensore di Scarantino non vi sono state anomalie nel funzionamento del registratore”, invece “in occasione di due chiamate verso il numero 091-210101” cioè il telefono fisso della Questura di Palermo “si sono verificate due anomalie”.
Così come anomalie si sarebbero riscontrate nella chiamate verso la pm Annamaria Palma. I pm hanno parlato di “imbarazzante comportamento processuale” degli “appartenenti del gruppo Falcone e Borsellino” in aula. “Le risultanze probatorie del processo depistaggio Borsellino, hanno scritto nei motivi di appello, “hanno consentito di acclarare con assoluta certezza episodi di indottrinamento posti in essere da Arnaldo La Barbera e da Mario Bo. In occasione di ciascuno dei due interrogatori del 16 settembre e del 28 ottobre 1994 – hanno detto ancora i pm – risultano documentati accessi del dottor Bo nel carcere di Palliano, dove era detenuto il collaboratore Andriotta”.
E hanno ribadito “il numero elevato di colloqui investigativi con Scarantino” che “evidenziano un costante modus operandi del dottor La Barbera e dei suoi fedelissimi funzionari caratterizzati dall’uso dei colloqui investigativi e degli accessi in strutture carcerarie per istruire i falsi collaboratori”. Per i giudici di primo grado “a meno di non ipotizzare scenari inverosimili di appartenenti a Cosa nostra che si aggirano in mezzo a decine di appartenenti alle forze dell’ordine, può ritenersi certo che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile a una attività materiale di Cosa nostra”.
E hanno aggiunto: “Ne discendono due ulteriori logiche conseguenze. In primo luogo, l’appartenenza istituzionale di chi ebbe a sottrarre materialmente l’agenda. Gli elementi in capo non consentono l’esatta individuazione della persona fisica che procedette all’asportazione dell’agenda senza cadere nella pletora delle alternative logicamente possibili ma è indubbio che può essersi trattato solo di chi, per funzioni ricoperte, poteva intervenire indisturbato in quel determinato contesto spazio-temporale e per conoscenze pregresse sapeva cosa era necessario e opportuno sottrarre”.
“In secondo luogo – hanno scritto ancora i giudici del processo depistaggio – un intervento così invasivo, tempestivo e purtroppo efficace nell’eliminazione di un elemento probatorio così importante per ricostruire – non oggi ma nel 1992 – il movente dell’eccidio di via D’Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a Cosa nostra di intervenire per ‘alterare’ il quadro delle investigazioni evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage e, in ultima analisi, disvelare il loro coinvolgimento nella strage di via d’Amelio”. Per i giudici di Caltanissetta, “movente della strage e finalità criminale di tutte le iniziative volte allo sviamento delle indagini su via D’Amelio sono intimamente connesse”.
Nelle quasi 1.500 pagine delle motivazioni, i giudici hanno anche parlato poi “della presenza di altri soggetti o gruppi di potere co-interessati all’eliminazione di Paolo Borsellino con un ruolo nella ideazione, preparazione ed esecuzione della strage di via D’Amelio”. E, nel frattempo, Lucia Borsellino e il marito, l’avvocato Fabio Trizzino, legale della famiglia del giudice nei processi, sono stati auditi dalla Commissione nazionale antimafia sul depistaggio.
Parole dure, quelle della figlia maggiore del magistrato. Ha parlato di “buio istituzionale”, dei “silenzi” e dei “non ricordo” che “non ci hanno consentito di risalire alla verità, ai veri responsabili del depistaggio, ai mandanti occulti e ai responsabili morali della strage” di via D’Amelio, e non ha mancato di fare riferimento alla sparizione dell’agenda rossa di suo padre, il giudice Paolo Borsellino, esprimendo anche delle perplessità sul fatto che non sia stato compiuto “nell’immediatezza dell’attentato l’esame del dna sulla borsa di mio padre”. Per Lucia Borsellino, quella che è stata consegnata alla sua famiglia, dopo inchieste e processi, diventa così solo “la verità della menzogna”.
“Qualunque ricostruzione dei fatti non può prescindere da riscontri documentali e testimonianze raccolti con assoluto rigore metodologico: è passato troppo tempo – ha affermato Lucia Borsellino- da quella strage, per cui non siamo più disposti ad accettare verità che non rispondano a questo rigore. Una ricostruzione anche solo sul piano storico delle vicende che hanno caratterizzato prima e dopo la strage di via D’Amelio sconta degli ostacoli che, a nostro avviso, per il tempo trascorso sono divenuti ormai insormontabili, ma – ha aggiunto – spero di essere smentita”.
Mentre per l’avvocato Trizzino “Occorre andare a cercare dentro l’ufficio della Procura di Palermo per vedere se allora si posero in atto condotte che in qualche modo favorirono quel processo di isolamento, delegittimazione, indicazione come target e obiettivo di Paolo Borsellino, che sono quelle condizioni essenziali che hanno sempre proceduto gli omicidi eccellenti a Palermo”.
Parlando delle dichiarazioni rese al Csm dai magistrati della Procura di Palermo subito dopo la strage e “rimasti nei cassetti per 30 anni”, Trizzino ha sottolineato: “È un dolore incommensurabile avere scoperto che già dal luglio del 1992 esistevano dei verbali e delle audizioni dei magistrati della Procura di Palermo in cui vuoi per la vicinanza rispetto alla strage o vuoi perché in quella Procura vi era un malessere che covava da tempo, i magistrati di allora furono sinceri e privi di qualunque freno inibitorio nel racconto delle dinamiche che, messe in atto dal procuratore Pietro Giammanco, resero di fatto impossibile la vita di un magistrato valoroso come Borsellino”. E da domani, si ricomincia. (di Elvira Terranova)
—cronacawebinfo@adnkronos.com (Web Info)