La silloge poetica
“D come Davide. Storie di plurali al singolare” di Davide Rocco Colacrai edito da Le Mezzelane è un volume di 26 poesie con la prefazione dello scrittore leccese Mattia Zecca. I componimenti di Colacrai sono seducenti, sorprendono il lettore ad ogni pagina che scopre di volta in volta una storia diversa. Ed è proprio questa la caratteristica di “D come Davide. Storie di plurali al singolare”.
Le poesie raccontano tutti gli aspetti e gli eventi che in qualche modo hanno lasciato un segno, hanno fatto vibrare la sensibilità del poeta. Ecco allora apparire Paolo Borsellino, si materializzano gli esuli d’Istria e Dalmazia, suo nonno, l’autore Vincenzo Restivo, riaffiora il suo cane Manny, Billy the Kid, lo scrittore marocchino Abdellah Taïa e Giovanni Falcone. Storia, fatti personali, ricordi ed emozioni intime creano un’osmosi, un flusso denso e pastoso tra ciò che appartiene a noi stessi e ciò di cui facciamo parte.
In quanto poeta civile, Davide Rocco Colacrai ha sentito il bisogno di unirsi alle emozioni comuni ricordando la strage dell’Hotel Rigopiano, Ustica, i numerosissimi malati a causa dell’Eternit e le vittime del Ponte Morandi di Genova. Ogni poesia è per il lettore un viaggio nella propria sensibilità e in quella dell’autore, attraverso poesie dolci, a volte forti e dure, che fanno riflettere ed emozionare.
Ringrazio Davide Rocco Colacrai per questa bella intervista nella quale abbiamo avuto modo di approfondire non solo il contenuto della silloge ma anche alcune sfumature del suo linguaggio espressivo
“D come Davide. Storie di plurali al singolare” di Colacrai
Salve Davide, lei è nuovo ai lettori di Cinque Colonne Magazine, ci racconta brevemente cosa le piace e di cosa si occupa nella vita?
Innanzitutto, mi permetto di ringraziarvi per l’ospitalità. Sono un Giurista e un Criminologo che via via negli anni è rimasto sempre più deluso dal percorso intrapreso – e qui si potrebbe aprire un ampio discorso su come le cose non funzionano in Italia – fino a decidere di abbandonarlo completamente e di rispolverare altre capacità, quelle linguistiche, e scoprirne alcune che non sapevo di possedere, con le quali attualmente lavoro come impiegato presso una famosa azienda internazionale. Non è stato facile abbandonare una strada per un’altra, soprattutto perché sono un grande sognatore e molto determinato e testardo e, se non costretto, non mollo.
“D come Davide” è il suo decimo libro di poesie. Quando è nata questa passione?
Più che di una passione parlerei di un’esigenza, o più genericamente di un dono. Diciamo pure che ho sempre scritto, sin da quando frequentavo le scuole materne e accompagnavo i miei disegni con delle frasi. Sicuramente a partire dal 2006/2007 ho sentito proprio la necessità di buttare fuori, di espellere, di far esplodere verso l’esterno tutto quel rumore che sentivo dentro e non potevo più trattenere, e di condividerlo. Oggi penso che alla base di tale necessità ci fosse anche la ricerca di una umanità al di là di quella solitudine nella quale pensiamo più o meno tutti di essere costretti in questo spazio che chiamiamo mondo.
Partiamo dal titolo: perché storie di plurali al singolare?
Ho scoperto con gli anni che le storie che viviamo e di cui siamo portatori sono da un lato storie nostre, ma dall’altro storie che altri hanno già vissuto prima o stanno vivendo parallelamente a noi. Pertanto, non esiste mai veramente una storia che sia solo nostra, una storia unica. Quindi armato di una lente e dalla mia inesauribile curiosità sono andato a studiare fatti storici che, allo stesso tempo, racchiudono l’elemento del plurale e quello del singolare: storie che io racconto da un punto di vista mio – dell’uomo, del cittadino, del poeta – e nelle quali troviamo famiglie intere. Pensiamo per esempio alla poesia nella quale si parla della Strage di Ustica.
Le sue poesie abbracciano temi diversissimi. Com’è nato D come Davide? Ha ripreso vecchie poesie che aveva scritto oppure ha pensato fin da subito di creare una raccolta con tematiche slegate.
Mi diverto spesso a raccontare che i miei libri nascono in maniera completamente intuitiva – e una volta mi hanno persino definito, e all’epoca lo trovavo divertente, “poeta medium”. Ad ogni modo, in pochi minuti butto nel calderone virtuale determinate poesie che già esistono e nel frattempo sono state premiate nei concorsi letterari, poi sento esattamente l’ordine nel quale devono apparire e il titolo. Ne consegue che realizzo la creazione soltanto quando ho il libro cartaceo davanti a me e ho avuto il tempo di sfogliarlo. Per quanto riguarda specificamente D come Davide, posso dire che si tratta di un’opera che raccoglie tematiche apparentemente slegate ma che hanno tutte un preciso denominatore comune: la Storia. Che dovrebbe ricordare a noi stessi chi siamo e che invece spesso viene dimenticata, o persino negata.
C’è una poesia presente nel suo libro a cui è particolarmente legato?
Ogni poesia è una figlia, per cui sono legato a ciascuna di esse nella misura in cui mi ricordano un certo periodo della mia vita, chi ero o una persona. Dal punto di vista storico invece, tengo molto alla poesia “Il confino (Isole Tremiti, 1939)”, che racconta un fatto storico che fino ad alcuni anni fa era completamente sconosciuto e dunque non riportato dai libri storici: il confinamento degli omosessuali siciliani sulle Isole Tremiti da parte del governo fascista.
Il confino (Isole Tremiti, 1939)
Agosto trascorre lento, solo,
la notte a girare per le campagne e contare i pioppi sugli argini
e bere
Ricordo lo stomaco vuoto com’erano vuote le onde,
i giorni nella ragnatela dell’attesa,
il marchio di essere un arruso,
l’odore di quell’incubo,
e tutto nell’atto di fingere una vita diversa, forse migliore.
Zuppa di fagioli e pane,
lo sciabordare liquido dei sogni,
il gioco alla morra,
il desiderio esacerbato della carne, di virgole azzurre nella notte,
un orizzonte senza scorciatoie,
il pensiero fisso all’isola,
nostra unica donna, madre e matrigna.
Eravamo costretti in baracche, due e di legno,
prigionieri di un reticolato,
pochi metri quadrati per essere uomini,
quattro spiccioli per sopravvivere a noi stessi.
Passavano i giorni,
lenti e lontani, come risucchiati dal Cretaccio, e sospesi,
era un’isola, la nostra, che non c’era,
si faceva sempre più pesante la solitudine,
l’assenza quasi tangibile dell’amore,
un’ora come un anno
a strisciare nei solchi lasciati dalle nostre preghiere, e poi a capo.
C’era chi raschiava il silenzio,
chi dipanava la matassa di un senso fatto di sole ossa,
qualcuno annusava già la morte.
Non c’era pietà né perdono.
Addosso, con me, il dolore mai lavato della razza, del nostro essere tutti cani randagi, senza nomi.