Il 21 febbraio 2020 veniva accertato il primo caso di Covid 19 in Italia. Un ragazzo trentenne ricoverato all’ospedale di Codogno con una strana polmonite interstiziale. Da allora il nostro Paese è piombato nell’incubo dell’epidemia, divenuta poi pandemia, che ha portato nel giro di poche settimane alla chiusura totale: il lockdown. Nei mesi seguenti abbiamo imparato nuovi termini, acquisito nuove abitudini ma soprattutto scoperto un Paese fragile, in campo sanitario e non solo. Un anno dopo quella data, l’Italia è ancora stretta nella morsa del Covid. Quanto pesano ancora quelle fragilità?
Il Sistema Sanitario Nazionale e il caso Lombardia
La fragilità più grave l’ha mostrata il nostro Servizio Sanitario Nazionale. Depauperati negli anni a vantaggio della medicina a pagamento, gli ospedali non sempre hanno retto l’improvvisa impennata di ricoveri soprattutto nelle terapie intensive e sub intensive. Quando, nell’illusoria pausa estiva, si è provveduto a rinforzare il sistema, si è dovuto poi fare i conti con la carenza di personale. La medicina del territorio, che doveva fare da supporto, è stata lasciata a se stessa. Le USCA hanno lavorato con grande fatica. Qual è la situazione oggi? Abbiamo senza dubbio degli strumenti di cura più specifici, tra cui gli anticorpi monoclonali, che dovrebbero scongiurare un nuovo intasamento delle strutture ospedaliere e una campagna vaccinale già in corso. La seconda fragilità è stata la volontà di non mollare. “Milano non si ferma” è stato lo slogan ripreso anche da altre città. La mancata zona rossa a Codogno, presso il cui ospedale si era registrato il primo caso (salvo poi accorgersi che il virus circolava in quella zona da mesi), così come a Vo’ Euganeo, e la decisione di non chiudere certi settori produttivi ha avuto le nefaste conseguenze che tutti conosciamo. E ha creato quella insana contrapposizione tra salute ed economia. L’alternativa di quei mesi era morire di Covid o di fame.
I ristori
E da qui passiamo a un altro importante capitolo di questa vicenda. La crisi economica innescata dall’emergenza sanitaria. La fragilità del nostro Paese, in questo caso, si è riscontrata non solo in un piano ristori che ha subito in certi casi notevoli ritardi e che non ha coperto tutti i settori lavorativi, ma anche nella direzione eccessivamente consumistica che la nostra economia aveva preso negli ultimi anni. Negli ultimi mesi, poi, il settore turistico e della ristorazione hanno pagato certi ritardi del governo nel prendere le decisioni. Scontano anche i risvolti di un sistema modulare che per evitare un nuovo lockdown ha deciso di spezzettare l’Italia in zone di rischio in base alla situazione contagi. Appena la curva scende, le misure si allentano, la vita “normale” spinge per riprendersi i suoi spazi e quando i contagi inevitabilmente risalgono ecco una nuova stretta e nuove chiusure.
L’Italia un anno dopo il primo caso di Covid
Perché i veri fragili siamo noi. Noi che le prime settimane abbiamo faticato a trovare le mascherine e ci siamo dovuti piegare alla dura legge del mercato per procurarci alcol etilico e gel per le mani. Noi che dopo mesi chiusi in casa, siamo stufi di impastare pizze, preparare dolci e cantare canzoni dai balconi. I giovani non sempre consapevoli dei rischi e sui quali si è abbattuta la scure della depressione. Dopo un anno, quello che regna è l’incertezza e tutto ciò che si desidera è il ritorno alla normalità.
In copertina Foto di Gerd Altmann da Pixabay