Chi di noi ha partecipato alla campagna vaccinale contro il Covid 19 prima dell’iniezione ha dovuto firmare dei moduli conosciuti come consenso informato. Il protocollo è previsto, in realtà, in molti altri casi come quello di un’anestesia prima di un intervento o per pratiche più invasive urgenti. Proprio riguardo ai vaccini, sui quali sono state sollevate aspre polemiche, il consenso informato è stato interpretato come uno scarico di responsabilità sul ricevente per un qualcosa che non era stata conclusa la sperimentazione. In realtà il consenso informato si basa sul concetto di diritto/dovere di un soggetto di conoscere le informazioni disponibili sulla sua salute. In più, il processo che porta all’accettazione di una prestazione medica è frutto di una scelta condivisa medico/paziente. Per chiarire questi e altri dubbi in merito abbiamo interpellato la dottoressa Silvana Quadrino, psicologa, psicoterapeuta, docente di comunicazione nelle relazioni di cura, presso l’Università di Torino.
Dottoressa Quadrino, siamo portati a pensare al consenso informato come a una serie di moduli da firmare prima di una pratica medica che presenta dei rischi. Cosa è davvero il consenso informato?
La legge dice che “Il Consenso Informato medico è il processo con cui il Paziente decide in modo libero e autonomo dopo che gli sono state presentate una serie specifica di informazioni, rese a lui comprensibili da parte del medico o equipe medica, se iniziare o proseguire il trattamento sanitario previsto”. Le parole chiave sono processo (non una azione, ma una serie di azioni), decide (parliamo cioè di processo decisionale) e informazioni comprensibili: dire, o ancor peggio far leggere, non significa informare. Per mettere in pratica la legge è necessario saper informare e saper guidare un percorso decisionale condiviso.
Per molti il consenso informato rappresenta un passaggio di responsabilità dal medico al paziente. Come si distribuiscono in realtà le responsabilità in questo caso?
Condividere le decisioni non significa abdicare alle proprie responsabilità: il medico ha la responsabilità del migliore utilizzo possibile delle proprie conoscenze per proporre al paziente il percorso terapeutico che considera ottimale. Ma ha anche la responsabilità di guidare il paziente nel percorso decisionale, e questo si può fare solo attraverso un dialogo, non con un monologo: solo così possono emergere le convinzioni e aspettative del paziente, e le informazioni che ha raccolto parlando della sua malattia, o viaggiando in rete. Di questi “viaggi” , e di quel patrimonio informativo, il medico deve tenere conto, senza irridere o rimproverare il paziente perché ha cercato di informarsi. Consenso informato significa anche confronto fra le informazioni del paziente e quello che il medico vuole che sappia, per arrivare a una decisione consapevole e condivisa.
Può capitare, in situazioni d’emergenza, che si debbano prendere decisioni importanti in poco tempo. In questi casi come si fa a informare correttamente?
Più il tempo è limitato, più sono necessarie competenze di comunicazione per informare in modo efficace. Nei colloqui informativi “spontanei” molto tempo va sprecato nel tentativo del medico di dire “tutto” a un paziente che non è più in grado di comprendere, o perché è traumatizzato dalla situazione di emergenza, che coincide quasi sempre con una cattiva notizia, o perché ha esaurito il suo tempo di attenzione. L’attenzione è la componente più fragile del processo informativo, si esaurisce rapidamente e va rivitalizzata di continuo. Per questo insisto sull’aspetto dialogico del consenso informato: le domande che il medico fa al paziente mantengono viva la sua attenzione e facilitano la condivisione degli elementi su cui si basa una decisione. Purché siano “buone” domande: e questo si impara.
L’attuale legislazione supporta in maniera efficiente la pratica del consenso informato o avrebbe bisogno di integrazioni?
Una legge può soltanto dire ciò che deve essere fatto, ciò a cui il cittadino ha diritto. Non può dire cosa deve fare il medico affinché il paziente possa decidere in modo libero e autonomo, e che cosa, concretamente, rende possibile il rapporto di fiducia che la legge indica come la base del consenso informato. Anche quando la legge sottolinea che “il tempo della comunicazione è tempo di cura” non può definire quali modalità organizzative permettano al medico di disporre veramente di un tempo di comunicazione adeguato. Non saprei dire se una legge può essere integrata in modo da superare questo divario fra il dettato di legge e la sua trasformazione in azioni. Ma certamente sottolineare che in nessun punto la legge fa coincidere il consenso informato con una serie di fogli da far firmare al paziente è fondamentale.