Le donne “in quei giorni” si sa non sono avvicinabili. Ma chiediamoci il perché. Circa l’80% delle donne in età fertile soffre di dismenorrea, per intenderci, dolori mestruali così forti da costringere la donna a non poter svolgere le quotidiane attività lavorative e non. Si tratta di un’alterazione del ciclo mestruale accompagnata da malessere generale e dolori che, generalmente, interessano la zona pelvica e l’addome. Un buon 30% delle donne che soffrono di dismenorrea resta spesso a casa nei giorni di ciclo mestruale.
Ecco perché lo scorso 27 Aprile la deputata del Partito Democratico Romina Mura, insieme alle sue colleghe Daniela Sbrollini, Maria Iacono e Simonetta Rubinato, ha presentato il disegno di legge 3781 “Istituzione del congedo per le donne che soffrono di dismenorrea”, l’altrimenti detto “congedo mestruale”. Tale istituto consentirebbe alle donne affette da dismenorrea di tirare un sospiro di sollievo, permettendo loro di restare a casa per un massimo di tre giorni al mese. Il congedo in questione non sarà equiparabile ad altri istituti come la malattia o le ferie e ne potranno godere le lavoratrici sia del settore privato che di quello pubblico a prescindere dalla tipologia di ore di servizio o del contratto di lavoro (subordinato, parasubordinato, a tempo determinato, indeterminato o a progetto).
Per fruire del permesso in questione sarà necessaria una certificazione del proprio specialista che dovrà essere oggetto di rinnovo annuale. Il congedo sarà retribuito al 100%, in teoria dall’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, quantomeno per le donne iscritte. Si tratta di un dettaglio non ancora inserito nel testo. La proposta è , attualmente in esame alla Commissione del Lavoro, e come accade per ogni cambiamento che si rispetti, le reazioni sono state un mix di entusiasmo, scetticismo e critiche. Volendo riassumere la questione c’è chi accoglie di buon grado la proposta come la fondatrice del sito femminista Bossy, Irene Facheris, che ha spiegato in un video postato sul suo canale You Tube che si tratta di un gesto umano che riconosce alle donne il sacrificio che devono sostenere durante il ciclo mestruale. C’è, poi, chi vi si oppone con tutta la forza che può, come Maria Cristina Piovesana, presidente di Unindustria Treviso. La donna, considera la proposta folle, discriminante per le donne e nociva per le imprese.
La proposta di Legge riguarda solo il mondo del lavoro, tuttavia, la dismenorrea è un disturbo che accompagna un po’ le donne di tutte le età. L’età giovanile, il menarca precoce, la nulliparità (non aver mai partorito) sono tutti fattori a rischio dismenorrea. Questo spiegherebbe come il ciclo mestruale doloroso possa generare un tasso di assenteismo scolastico fra il 13 e il 51% contro il 10% relativo al mondo del lavoro.
Nel testo della proposta si fa esplicito riferimento ai Paesi del mondo dove l’istituto è in vigore da un bel po’ di tempo, parliamo di Paesi Orientali come Taiwan, Sud Corea, Indonesia e Giappone. Si citano aziende del calibro di Nike e Coexist che hanno introdotto il congedo in questione nel proprio statuto o codice di condotta. In Asia si pensa che se la donna non riposa nei giorni del ciclo mestruale avrà numerose difficoltà durante il parto. Coexist, invece, ha effettuato un accurato studio giungendo alla conclusione che le donne, una volta passato il ciclo risultano sino a tre volte più produttive. Questo accento sul ruolo di madre e di figura femminile multitasker alla quale il congedo mestruale fornirebbe poteri da supereroina sembra spostare il discorso dal bisogno umano e fisiologico a quello di efficienza al servizio di altri.
Martina Ioratti ha spiegato che nella descrizione del lavoro emozionale femminile esistono cose come organizzare la casa, prendersi cura del partner e dei figli, supportare i colleghi e familiari, essere multitasking a tutti gli effetti. Questo è’ un dato di fatto.
Se da un lato il congedo mestruale verrebbe incontro alle donne e ai loro bisogni, dall’altra sembra essere un’ arma a doppio taglio, almeno per quanto concerne il nostro Paese. Nel tentativo di istituire una nuova tutela per le donne si rischierebbe di porre le stesse in una posizione ancor più svantaggiosa.
In Italia, una lavoratrice del settore privato, percepisce 1,80€ in meno rispetto a un uomo, questo, per diversi fattori, fra i quali la maternità. Non sono rari, in effetti, i casi di dimissioni in bianco, spesso ai dipendenti è chiesto di firmare le proprie dimissioni che verranno poi usate in casi di comportamenti sgraditi, fra i quali, spesso si annovera la maternità. Le donne, inoltre, sono spesso discriminate in sede di assunzione per il solo fatto di essere donne e probabilmente future madri. Nonostante l’art. 8 dello Statuto dei Lavoratori e l’art. 27 del Codice delle Pari Opportunità vietino domande personali sullo stato civile della candidata, la pratica non passa di moda.
Date le premesse, il congedo mestruale potrebbe non agevolare per nulla la già discriminata posizione femminile, questo, poiché le donne potrebbero stare a casa per tre giorni al mese, oltre la maternità con evidente preoccupazione per il datore di lavoro per quanto concerne la distribuzione dei carichi di lavoro, inoltre, nella proposta di legge non viene descritto il regime di corresponsione salariare in caso di lavoratrici non iscritte all’INPS con il rischio per l’azienda di dover metter mano alla tasca. La scorciatoia? Preferire un lavoratore uomo.
Volendo, poi, spostare il discorso sul piano morale, si rischierebbe di enfatizzare la diversità ormonale della donna, quel “in quei giorni li” e tutti gli altri stereotipi.
La questione è molto discussa, se da un lato la proposta di legge ha il merito di voler tutelare la posizione femminile, dall’altro fornisce un assist alle discriminazioni di genere. Per non considerare la responsabilità della lavoratrice. In un contesto in cui esiste già una grande incertezza circa la figura femminile sul lavoro è giusto richiedere il certificato? Le lavoratrici potrebbero non tutelarsi per paura di essere discriminate.
Il rischio di ricevere una visibilità tale da poter essere messe da parte c’è. Sarebbe opportuno dettagliare al meglio il testo e introdurre maggiori controlli sui colloqui, sulle discriminazioni ad opera di molte aziende nei confronti delle donne. Se la maggioranza delle donne soffre di ciclo doloroso, bisognerebbe ipotizzare soluzioni che limitino al massimo la responsabilità di lavoratori e imprese e propongano misure reali e concrete.
Oltre a dettagliare l’istituito bisognerebbe stabilire che a pari ruolo debba corrispondere pari contratto e retribuzione indipendentemente dal sesso, razza, religione, etc. Incrementare i controlli senza rischiare di introdurre misure palliative che pur volendo proteggere le donne rischiano di diventare motivo di discriminazione.