Forse non tutti sanno che l’Italia è un grande importatore di materie prime agricole. Forse non tutti sanno che oltre alla retorica delle colture e degli alimenti di vicinato, l’Italia importa molto, troppo: frumento tenero per fare il pane, frumento duro per la pasta, mais per alimentare gli animali e fare la polenta, soia per nutrire maiali e vacche, e anche la carne… Perché importare quando potremmo essere autosufficienti? Basterebbe affidarsi alla scienza.
Da anni, infatti, Compag – la Federazione Nazionale dei commercianti di prodotti per l’agrircoltura, sottolinea come rinunciare alla ricerca e alla tecnologia significhi rinunciare al Made in Italy, che è fatto di innovazione e non di riproposizione di un passato che non esiste più. Solo con l’innovazione è possibile garantire la biodiversità e lo sviluppo di nuove tecniche. La ricerca genetica sta progredendo e le tecniche genetiche stanno evolvendo in nuove forme grazie alla conoscenza sempre più approfondita del DNA e della trasmissione dei caratteri. Rinunciare alla ricerca significa essere tagliati fuori dall’evoluzione impedendo alle aziende agricole italiane di essere competitive sul mercato.
L’Italia importa ormai una grande quantità di derrate perché la produzione nazionale è divenuta insufficiente. Il mais è una di quelle colture per le quali il nostro territorio ha una vocazionalità che trova riscontro nelle tradizioni gastronomiche regionali. La Pianura Padana dal Dopoguerra si è sempre distinta come un’area produttiva con rese elevate, superiori a quelle dei grandi produttori del Nord Europa. Tuttavia, ciò non sarebbe stato possibile se non avesse importato i mais ibridi prodotti dalle multinazionali americane. Nonostante questo, negli ultimi 10 anni la produttività della Pianura Padana è diminuita. Come indicato dai dati ISTAT riportati nella tabella che segue, mentre nel 2004 l’Italia era praticamente autosufficiente per la produzione di mais, oggi deve importare quasi quanto produce.
Chi opera in agricoltura è a conoscenza dei problemi sanitari emersi a metà della prima decade degli anni duemila: sulle vecchie varietà si trovano delle tossine che negli anni precedenti non venivano ricercate. Tossine pericolose per la salute dell’uomo e degli animali. Tossine che, a differenza del passato (quando se ne ignorava l’esistenza), ora vengono analizzate dalle unità sanitarie territoriali e le partite che superano i limiti prestabiliti non possono essere destinate all’alimentazione umana e animale. Si tratta di un grosso problema per gli agricoltori i quali, pur applicando accorte tecniche di coltivazione, non sempre riescono a prevenirne l’insorgenza, perché non vi può essere alcun controllo sul clima.
La soluzione esiste e sta nella ricerca. Una ricerca scientifica scevra da pregiudizi, una ricerca che consenta di perfezionare le tecniche agronomiche e contemporaneamente mettere a disposizione delle aziende agricole le sementi idonee a evitare, o quanto meno limitare, l’insorgenza delle tossine. Ma le nuove varietà di sementi sono gli OGM, organismi geneticamente modificati che l’Italia ha messo al bando, vietando non solo la coltivazione ma anche la sperimentazione. Secondo Compag, le ragioni sono incomprensibili: se gli OGM fossero dannosi, i paesi quali gli Stati Uniti, il Canada, l’Argentina e il Brasile, in cui gli OGM corrispondono al 70-80% delle produzioni, dovrebbero avere una popolazione ammalata o addirittura decimata, dato che lì gli “organismi pericolosi” sono stati introdotti fin dalla metà degli anni ‘90. Ma anche gli Europei, e soprattutto gli Italiani, dovrebbero già manifestare qualche sintomo causato da questi pericolosi organismi: nel Belpaese, infatti, non si producono OGM, ma essi vengono importati per alimentare il bestiame e quindi ingeriti da tutti attraverso la carne che mettiamo nei nostri piatti…
Un recente studio condotto dall’Università di Pisa spiega il motivo per cui Americani, Canadesi, Brasiliani, Argentini, Europei – e persino gli Italiani – non manifestino sintomi di intossicazione dovuti agli OGM: essi non sono pericolosi per la salute, ma permettono di contenere del 30% la diffusione delle tossine e di aumentare la produttività del 24,5%.