La campagna 2018 del riso è appena iniziata, ma è iniziata nel peggiore dei modi. C’è stato infatti il problema dell’inverno, interminabile, che ha impedito le lavorazioni dei campi e limitato l’impiego dei prodotti per la protezione delle piante, regolamentati da sempre maggiori restrizioni.
L’Italia produce il 50% del riso d’Europa, con circa 220.000 ettari, di cui il 35% di riso da risotto per consumo interno e il 65% di altro tipo (tondo, medio, lungo A, lungo B). Un mercato che registra un export verso l’Unione Europea del 56% e del 12% fuori dall’Unione (compresa la Cina). La Spagna ne coltiva 105.000 ettari, seguono il Portogallo con 30.000 ettari, la Grecia con 25.000, la Romania con 15.000 ettari, la Francia e la Bulgaria con 12.000 ettari e l’Ungheria con 3.000.
Il riso è pertanto per l’Italia una grande realtà e, dopo secoli di tradizione, rimane un’opportunità che deve essere difesa e, per così dire, “coltivata”. Il consumo di questo alimento risale infatti all’Alto Medio Evo, quando fu importato in Italia e in Francia dagli Arabi per essere utilizzato come pianta medicinale. Trovò negli areali del Nord Italia, con terreni fertili e disponibilità idrica per la vicinanza delle Alpi, le condizioni migliori per svilupparsi. Fu poi il Conte di Cavour a creare le strutture necessarie per garantire lo sviluppo di quella che è divenuta una coltura tipica italiana ed una materia prima per la creazione di tanti primi piatti della nostra tradizione culinaria. Ora però gli elevati costi di produzione dovuti alle suddette particolari condizioni di coltivazione e la concorrenza del risone, riso lavorato e semilavorato importato a basso costo, minacciano di compromettere uno dei capisaldi del nostro ricco patrimonio agroalimentare.
La coltura del riso si sviluppa in condizioni molto particolari, come le abbondanti disponibilità idriche. Queste costituiscono un ambiente ideale anche per la proliferazione di erbe similari, appartenenti alla stessa famiglia botanica del riso e dunque con una forte capacità di competere con esso. Gli agricoltori hanno affinato tecniche agronomiche a supporto quali la falsa semina, l’anticipo nella preparazione del letto di semina, una appropriata regimazione delle acque della risaia, ma spesso ciò non basta ed è necessario ricorrere al mezzo chimico. Con l’evoluzione delle tecniche di coltivazione, che si sono fortemente perfezionate ed evolute, e con l’immissione sul mercato di nuove molecole impiegate a dosaggi molto bassi rispetto ai prodotti di vecchia generazione, sono state abbattute in maniera drastica le quantità di sostanze chimiche utilizzate.
Coltivazione ed ambiente
L’immissione in commercio dei prodotti chimici è andata incontro a sempre maggiori restrizioni. Le richieste via via più esigenti della collettività per un ambiente per quanto possibile incontaminato hanno innescato dei meccanismi legislativi per contenere la diffusione della chimica adeguando le scelte sulla base di studi sempre più raffinati. Ma il meccanismo positivo che ha determinato una riduzione della chimica in maniera drastica (-20% in Italia negli ultimi 10 anni) e lo sviluppo di molecole più intelligenti e meno impattanti per l’ambiente, stanno arrivando al punto di ostacolare la coltivazione di diverse produzioni agricole nazionali per la mancanza di prodotti idonei alla difesa.
A tutt’oggi non è pensabile poter sostituire l’intera produzione con il biologico, sempre ammesso che il biologico garantisca una maggiore salubrità dell’alimento ottenuto e un minore impatto sull’ambiente.
La coltura del riso è una di quelle maggiormente colpite dalle restrizioni sull’impiego dei prodotti per la difesa fitosanitaria. Negli ultimi anni la coltivazione è stata garantita grazie alle deroghe sull’impiego di prodotti per la difesa rispetto alla normativa. Parallelamente però la ricerca non è stata in grado di individuare molecole alternative che potessero essere di aiuto alla difesa della coltura, e così quest’anno, con il mancato rinnovo delle deroghe, l’agricoltore si trova in grosse difficoltà per l’abbassamento delle rese e l’aumento dei costi di produzione.
Le conseguenze di tali condizioni sono già note all’agricoltura italiana essendosi presentate in situazioni analoghe su altre coltivazioni. È il caso, ad esempio, del mais, coltura sulla quale sono venuti a mancare gli strumenti per contrastare lo sviluppo di tossine prodotte da funghi che crescono sulla coltura. Ciò ha comportato che, dall’autosufficienza di una decina di anni fa, l’Italia sia diventato il secondo importatore europeo di mais, dopo la Spagna, dovendosi approvvigionare sui mercati del Mar Nero o del Sud America per quasi il 50% del proprio fabbisogno.
Compag, la Federazione Nazionale dei Commercianti di prodotti per l’Agricoltura che convoglia 8000 attività commerciali di dimensioni medio-piccole in grado di produrre il 66% del fatturato del settore privato quantificabile in 2500 milioni di euro, è entrata con propri rappresentanti nelle commissioni del Ministero delle Politiche Agricole, del Ministero della Salute, del Ministero dell’Ambiente e del Ministero dello Sviluppo Economico, per evidenziare il problema presso i tavoli di discussione allo scopo di sensibilizzare quanto prima le Istituzioni verso una situazione agricola nazionale che, da motore trainante dell’economia, sta letteralmente crollando.