Ciò che è rimasto di Marco Verrillo edito da ScriverePoesia Edizioni è un percorso intimo, un viaggio dentro e fuori se stessi, un crogiuolo di caos e quiete. Un momento di libertà. Una prigione eterna.
Marco Verrillo si appassiona alla scrittura a 10 anni, scrive poesie e testi. Il fluire incessante dei pensieri va fermato, va cristallizzato su carta altrimenti non libra, non si libera. E le poesie di Verrillo sono così: libere di vagare nel labirinto emotivo dell’anima alla ricerca della propria autenticità, della verità.
Una serie di micro-racconti caratterizzati da un linguaggio vibrante conduce il lettore in una serie infinita di riflessioni sulle quali è impossibile non soffermarsi più del dovuto. Marco Verrillo ci parla di tutto, dell’amore, della perdita, della speranza e della rinascita, ma innanzitutto ci parla della bellezza della vita stessa.
Ciò che è rimasto di Marco Verrillo è una raccolta di poesie inusuale, originale, ironica, vivace e nostalgica come la lingua napoletana; è un libro che si ha la tentazione di leggere tutto d’un fiato come un romanzo ma su cui si sente il bisogno di una pausa per respirarne le parole, con i suoi profumi e i suoi miasmi.
Ringrazio Marco Verrillo per questa bella intervista che ci ha dato la possibilità di scoprire qualcosa in più sulla sua originalissima raccolta Ciò che è rimasto.
Ciò che è rimasto di Marco Verrillo
Salve Marco, il pubblico di Cinquecolonne ancora non la conosce. Ci può raccontare brevemente cosa fa nella vita e quali sono le sue passioni, a parte la scrittura ovviamente?
Raccontarmi mi farebbe rischiare di cadere nel luogo comune e nella retorica di circostanza, quindi mi limito a: “Carissima grazie dell’invito. Mi chiamo Marco Verrillo, sono sicuro di essere napoletano. Sono abbastanza sicuro di avere 45 anni ( e me li sento tutti, però, “vabbuò jamme annanze”) e vivo a Vanzaghello dal 2007. Scrivo non per passione, ma per principio, perché considero l’arte e, per antonomasia, la poesia e il racconto breve, come un archetipo, un principio assoluto imprescindibile da me”.
Lei ha al suo attivo già diverse pubblicazioni. Rispetto alla prima, Cose che dicono niente (2011), qual è il cambiamento che maggiormente ha percepito nella sua scrittura?
E’ una storia a sé, che vorrebbe rappresentare la somma (o la differenza, sigh!) di tutto ciò che è stato, compresi i miei quattro libri pubblicati in precedenza. Nella vita ci sono, nel turbinio quotidiano, le cose che agogniamo, speriamo e cerchiamo di costruire e poi ci sono le cose che accadono: l’arte accade. Questa raccolta è accaduta!
Partiamo dal titolo del suo libro, “Ciò che è rimasto”. Possiamo anticipare qualcosa ai lettori? C’è un fil rouge, un argomento che ritorna nelle poesie e che si riallaccia al titolo?
Questa raccolta è nata una goccia alla volta. Come la goccia del lavandino della cantina che perde da anni e non riusciamo a riparare. Quella goccia che non dovrebbe uscire. Quella goccia disfunzionale, ma che piano piano riempie l’annaffiatoio di plastica di quattro litri che usiamo per irrigare le piante del giardino. Insomma, un grande difetto che è divenuto forma di nuove possibilità. Un’occasione. C’è La mia profonda depressione durata tre anni. La risalita, lenta e faticosissima, verso me stesso, il mio peggior nemico e il mio miglior amico. La scoperta del “giusto mezzo aristotelico”, dove il “troppo” è esasperazione e non ricchezza: l’amore che non va confuso con l’ossessione. Il sesso che non va confuso con la dipendenza.
Nelle sue splendide poesie, l’uso del dialetto è molto ricorrente. Che ruolo ha la lingua, la sua lingua, nel processo creativo?
Credo sicuramente che esista un’eredità culturale, sociale e fisica. Ma credo, anche e soprattutto, un’eredità spirituale, dell’anima. Napoli rappresenta la ricchezza multiculturale e multicultuale, esoterica ed essoterica, che solo chi nasce e cresce in questo variegato di sentimenti, rocce incandescenti e acqua possa ereditare. Io ragiono, penso, parlo e interagisco in napoletano. E’ un principio. La mia grande ricchezza, però, è conoscere due lingue meravigliose che mi permettono di “fare arte” e attraversarla proprio grazie all’uso della parola, della lingua: italiano e napoletano. Non c’è differenza, c’è solo la grandezza di poter usare questo mio filtro corporeo di carne e arti per creare, dire, fare, proprio grazie alle parole. Nelle parole.
In una sua poesia c’è una frase che mi è piaciuta e mi ha colpita molto: “Sai da dove deriva la peggior solitudine? Dall’ansia e dalla fretta di non voler restare soli” (Vanza 1/10/22 21:44 sabato). Che rapporto ha Marco Verrillo con la solitudine e quanta c’è in “Ciò che è rimasto”?
Una sorta di ricerca verso sé stessi, in noi stessi, che non è una ricerca spasmodica della serenità a tutti i costi. Questa corsa verso i sentimenti esasperati per riempire i propri vuoti: cominciamo a riempierci delle nostre cose. Prendiamoci per mano e ascoltiamoci. Nel totale silenzio che “fa nu cuofano ‘e burdell” (un gran frastuono).
La solitudine non è una mia ambizione, è la forma e la sostanza dei miei scritti. Io vivo nel caos, sono assorbito ed ispirato dal quotidiano, ma nel momento in cui scrivo, anche nel caos più assoluto, rimango solo. Sono solo. Rifuggo in me stesso e scrivo, scrivo…scrivo. Mi parlo. Mi assento per morire e rinascere in ogni verso.
Un caro saluto a tutti e grazie del tempo dedicatomi.