Che cosa sta succedendo di nuovo sulle borse cinesi? Lunedì, al primo giorno di riapertura delle contrattazioni del 2016, le due principali borse cinesi di Shanghai e Shenzhen sono andate in subbuglio, con un’ondata di vendite che ha mandato a picco l’indice CSI300 delle maggiori società quotate: – 7,02%, la peggior performance dall’agosto del 2015, al culmine della prima crisi borsistica cinese.
Come previsto dalla nuova regolamentazione recentemente introdotta per garantire la stabilità del mercato, quando l’indice aumenta o diminuisce del 7%, scatta il blocco delle contrattazioni fino alla chiusura (solo per 15 minuti se la variazione rimane entro il 5%). Dopo il blocco delle contrattazioni di lunedì e la massiccia iniezione di liquidità da parte della People’s Bank of China con l’acquisto di titoli e azioni per un controvalore di 130 miliardi di yuan (pari a circa 20 miliardi di dollari), le autorità monetarie continuano a seguire il solito copione di interventi di emergenza nella quasi totale incertezza sul corso della politica futura.
Due sono le cause del panico sulle borse cinesi. La principale è il susseguirsi di dati insoddisfacenti sull’andamento dell’economia cinese, peggiori delle attese, il più recente proprio ieri: l’indice Caixin che misura la performance del settore manifatturiero è sceso a 48,2 lo scorso dicembre, rispetto al 48,6 di novembre, e in controtendenza rispetto alle attese degli operatori (i sondaggi Reuters indicavano un miglioramento a 49, vicino alla soglia di 50, al di sopra della quale segnala espansione). Si tratta del peggior risultato degli ultimi tre mesi, secondo soltanto al record negativo di 47,2 registrato nel settembre 2015. La produzione manifatturiera è in calo dallo scorso marzo, per la debolezza della domanda sia interna sia estera, e i dati sull’occupazione indicano che i nuovi posti di lavoro sono sempre di meno. L’industria è vitale per la crescita della seconda economia più grande del mondo, perché è il settore che maggiormente sostiene le esportazioni, motore principale della domanda di beni cinesi. E nonostante i servizi rappresentino ormai il 48% del PIL e impieghino il 30% di lavoro in più dell’industria, la fiducia degli imprenditori dipende ancora pesantemente dall’andamento della produzione industriale, che genera più esportazioni dei servizi, mediamente meno commerciabili.
La seconda ragione è il possibile anticipo degli effetti della fine del divieto di vendita dei pacchetti azionari superiori al 5% delle azioni delle principali società quotate, introdotto l’8 luglio scorso per 6 mesi, allo scopo di arginare la crisi di borsa. Gli operatori stimano un valore azionario di 1240 miliardi di yuan che saranno liberati dal blocco il prossimo lunedì, ammesso che il blocco non venga esteso. Anticipando possibili ribassi dei listini, i piccoli investitori e i ribassisti potrebbero aver liquidato le proprie posizioni, e in questo senso le nuove regole entrate in vigore proprio ieri potrebbero aver accelerato il fenomeno. La regolamentazione prevedeva già un limite massimo giornaliero del 10% sull’andamento delle singole azioni, e un ulteriore blocco automatico espresso in percentuale sul valore complessivo del CSI300 segnala il timore da parte del regolatore di una nuova ondata di instabilità.
Non sono tanto i blocchi automatici la prova di una tendenza tutta cinese a bloccare il mercato invece di regolarlo; tali blocchi esistono anche sui mercati borsistici più avanzati, tra cui gli Stati Uniti, dove furono introdotti dopo il lunedì nero di Wall Street nell’ottobre del 1987, ma paradossalmente, un eccesso di regolamentazione potrebbe portare a momenti di forte instabilità, vanificandone l’obiettivo di proteggere i piccoli investitori, il gruppo oggi più numeroso sulle borse cinesi, da forti movimenti dei prezzi sia al rialzo sia al ribasso, per evitare improvvisi crolli ma anche pericolose bolle. Il nuovo anno borsistico riporta quindi al pettine i vecchi nodi della transizione dell’economia cinese verso un nuovo modello con meno dirigismo e più mercato.