Ci sono tanti Natali in una vita.
In quelli della mia infanzia mio nonno si caricava sulle spalle dall’isola di Caprera un pino appena tagliato e poi saliva le scale di casa per portarcelo, non mi è mai apparso vecchio mio nonno, neppure da bambina, era un uomo vigoroso, bello, entusiasta della vita. Quando mia madre, preoccupata per lui, lo invitava a riposarsi le rispondeva che c’è tutta l’eternità per riposare e rideva; a noi, sue nipoti, diceva che dovevamo spendere subito i soldi che ci regalava e non conservarli, perché i soldi servono a soddisfare i desideri appena si hanno tra le mani, altrimenti i desideri si sciupano e i soldi finiscono per essere solo monete tristi risparmiate nel fondo di un cassetto.
Mio padre sistemava l’albero in un grande vaso pieno di terra che mia madre rivestiva di carta verde, poi insieme sul tavolo della cucina dipingevamo le pigne d’argento e d’oro, non c’erano decorazioni di plastica allora, palle colorate da supermercato, tra i rami solo quei frutti dei pini resi brillanti dalle nostre mani, i mandarini col picciolo per attaccarci il filo con cui appenderli, qualche piccolo biscotto fatto a casa avvolto in cartavelina colorata. Natale era questo lavorare insieme, inventarsi insieme la festa, adulti, vecchi, bambini. Non ci aspettavamo regali, Gesù bambino era povero, ci dicevano, eravamo noi a dovergli fare i regali. A me e a mia sorella bastavano i vestiti nuovi che nostra madre cuciva per le vecchie bambole.
Così andavamo con mio padre in campagna a raccogliere il muschio per il presepe, perché anzitutto volevamo che quel bambino nascesse, al di là della sua povertà, in un luogo bello, tra suggestioni mediorientali e immagini mediterranee, volevamo che fosse palestinese ma anche isolano come noi, figlio del granito e del vento. Mio padre progettava il presepe già dall’inizio di dicembre, un grande villaggio che occupava la metà di una stanza, costruiva un’impalcatura per sistemarcelo, un palcoscenico su cui poi insieme avremmo disposto i luoghi della storia, mischiando paesaggi, montagne, laghi, villaggi, strade, fonti e ovunque piccole statue di cartapesta che ci aveva portato da uno dei suoi viaggi, non ho mai più visto figure così belle, pastori, pescatori, mercanti, fanciulle, donne con la brocca in testa o le mani al telaio, bambini coi loro giochi e un numero incredibile di animali.
Mio padre aveva costruito per quei personaggi case in legno, capanne di sughero, rifugi, ponti, botteghe e poi viottoli, terreni erbosi, colline fiorite, cerchi d’alberi perché le statuine nel loro spazio consumassero il rito dell’attesa, celebrando l’evento che avrebbe fatto di ognuna di loro la testimone di un miracolo. Le piccole mani mie e di mia sorella spargevano poi su tutto una polvere bianca, farina credo, o fiocchi di cotone per simulare la neve, gemellando quel luogo di un caldo paese lontano con un villaggio dell’Umbria dove san Francesco, per primo, aveva ricostruito la Natività in una grotta circondata di neve, per farcela sentire più vicina.
Davanti a quel presepe costruito con le mani di mio padre, mia madre raccontava la storia, le tante storie che si intrecciavano intorno a quel dio bambino che aveva scelto di nascere in una mangiatoia al calore del fiato di un bue e di un asino, figlio di due fuggitivi senza asilo e di fronte al quale il 6 gennaio avremmo messo inginocchiati davanti a rendergli omaggio i Re del mondo. Mia madre raccontava per noi con la sua voce un po’ rauca e espressiva quello che un libro antico, da sempre nella libreria della casa, conservava nel segreto delle sue pagine ingiallite, immettendoci nella mente e nel cuore il seme della compassione, la coscienza delle ingiustizie del mondo, il potere dell’amore.
Da sempre i racconti di mia madre hanno nutrito la nostra infanzia, l’hanno popolata di miti, di fiabe, di epope, di verità e di magia, risvegliando in noi la passione per la vita narrata, rinventata nelle immagini pregnanti delle parole. Tutto questo non si è mai allontanato da noi. Lei ha continuato a esistere anche nei tanti differenti Natali della nostra vita, quando già non c’era più a cantare “Astro del ciel” mentre a mezzanotte deponeva il bambino nel presepe, quando quel rito a volte sembrava aver perso per noi la sua verità e la sua forza.
Non sapevamo nella nostra giovinezza iconoclasta trasgressiva esuberante impaziente che il rito genera sempre una verità “altra” da quella che crediamo e quel rito deposto nelle nostre vite dalle mani operose di mio padre e dalle parole di mia madre avrebbe continuato ad agire in noi. Non sapevamo che si sarebbe annidato nella nostra attenzione all’altro, nel rispetto della diversità, nella lotta contro la sopraffazione e l’ingiustizia, in scelte di condivisione, di solidarietà e d’amore.
E poi negli anni io e mia sorella, divenute adulte, abbiamo ornato l’albero di luci colorate, l’abbiamo fatto noi il presepe, in case diverse, persino in continenti diversi, non solo per i bambini che hanno riempito la nostra casa ma anche per la poesia di quella storia antica che parlava di un evento di pace e di salvezza, per quello che noi avevamo scelto di mettere in quella storia antica, in quel mito di un’infanzia che salva il mondo in un mondo in cui l’infanzia è spesso vilipesa calpestata uccisa; e mettemmo i Re Magi, i sapienti e i potenti della terra, inginocchiati davanti a un umile bambino perché fosse riscattata la dignità umana, nel cuore di un impero fondato sulla guerra e sulla conquista.
Ci sono tanti Natali in una vita, nella gioia e nella tristezza, nella solitudine e nella compagnia, nell’accoglienza e nell’abbandono, ci sono Natali senza certezze, senza fede in nulla, senza bellezza, vissuti per le tavole imbandite, le tombole, le partite a carte, i regali, gli amici con cui brindare, Natali dove dimentichiamo l’ ”essere” per l’ “avere”, dimentichiamo che i bambini e noi stessi, conservando la nostra natura di bambini, possiamo ancora tentare di riscattare il mondo dagli abissi della violenza e del dolore.
È l’unica speranza che abbiamo.