Una leggenda alimentata negli anni racconta che siano state le dure critiche alle sue opere ad ucciderlo, ma non fu esattamente così.
John Keats è morto a 25 anni di tubercolosi, una malattia che non ha dato scampo né alla madre né a Tom, l’adorato fratello di Keats. A lungo la critica, ma anche i contemporanei di Keats, pensavano che la morte del giovane poeta fosse strettamente legata ai dolori patiti per le impietose critiche ricevute dopo la pubblicazione delle sue opere. Ma non andò proprio in questi termini.
Ad alimentare questa convinzione fu la pubblicazione dell’elegia di Shelley in onore di Keats, Adonais. Shelley fu mosso, non solo dal profondo rispetto che provava per Keats e che considerava un poeta di grande talento, ma innanzitutto dalle critiche feroci dirette ai suoi lavori che Shelley credeva avessero accelerato la morte del giovane poeta. Sicuramente le vicende personali di Keats contribuirono a provocargli momenti molto dolorosi, ma sono state parentesi che non ne hanno scalfito l’animo anzi, a volte glielo hanno rafforzato.
Il primo grande dolore della sua vita non gli risparmiò né gli affetti familiari né la sua amata Poesia. Il 27 aprile del 1818, venne pubblicato l’Endimione e contemporaneamente suo fratello Tom cominciò a sputar sangue, a stare male e ad aggravarsi velocemente. Dopo qualche mese dalla pubblicazione del suo Endimione un’ondata di critiche negative si abbatté sul poeta. Riviste autorevoli dell’epoca quali la Quarterly Review (che fu la più impietosa verso Keats), la British Critic, la Blackwood lo oltraggiarono pubblicamente e senza freni.
Il Blackwood gli consigliò di tornare a fare il medico [1] perché la poesia non era arte sua («… è cosa migliore e più saggia essere un dottore morto di fame che un poeta morto di fame»[2]), mentre il Quarterly Review ci andò giù pesante [«…Keats (se questo è il suo vero nome, perché dubitiamo che una persona sana di mente firmi col suo vero nome una roba simile) è un discepolo della nuova scuola che è stata definita da qualcuno la scuola della poesia “cockney” [3]; che si può dire consista delle idee più incongrue espresse nel più sguaiato dei linguaggi…Si tratta di una copia di Hunt [4], molto più inintelligibile e altrettanto sregolata, due volte più logorroica e dieci volte più noiosa e assurda del suo prototipo») [5].
Queste critiche avrebbero distrutto psicologicamente chiunque, ma non Keats. Si era offeso, è vero, ma lui era forte, ed era forte perché da un evento negativo ne aveva tratto un aspetto positivo: le critiche erano critiche costruttive, significava che la sua Poesia non era ancora matura, avrebbe dovuto fare di meglio. E in una lettera al suo amico Hessey dell’8 ottobre 1818 [6] scrisse: «… il caso ha voluto che ricevessi il giornale tutti i giorni, ho visto anche quello di oggi. Non posso fare a meno di sentirmi in debito con quei Signori che hanno preso le mie difese – per il resto, comincio a conoscere meglio la mia forza e la mia debolezza. La lode e il biasimo non hanno che un effetto momentaneo su chi amando la bellezza in generale è giudice severo del proprio lavoro. Le critiche che mi sono fatto da me, m’hanno fatto più male di quelle del Blackwood o della Quarterly; e poi quando so di essere nel giusto, non c’è lode da parte di estranei che possa darmi quell’eccitazione che provo nel percepire in solitudine e nel riconfermare a me stesso ciò che ho giudicato bello». E poi, alla fine della lettera aggiunge: «…Non ho mai avuto paura di fallire; perché preferirei comunque fallire che non essere tra i grandi».
Keats aveva una profonda fiducia in se stesso e nelle sue capacità; sapeva che un giorno sarebbe stato ricordato accanto ai grandi della poesia e il sostegno degli amici fu il giusto incoraggiamento nel perseguire la strada scelta. La sua tenacia gli ha dato ragione, e oggi è considerato uno dei maggiori poeti romantici inglesi della prima generazione, accanto a Byron e Shelley.
Il nostro viaggio alla riscoperta di Keats continua e si ferma sulle pagine di un racconto giallo, quello di Ben Pastor, scrittrice italo-americana, che affascinata dalla figura di Keats scrive una detective story dal titolo“La Fioraia di Keats” .
Fonti:
– NADIA FUSINI, Keats – Lettere sulla poesia, Oscar Mondadori
– Quarterly Review 19 (April 1818) 204-08 (http://spenserians.cath.vt.edu/TextRecord.php?textsid=7900)
– John Lockhart “Cockney School of Poetry”, Blackwood’s Edinburgh Magazine, 3 (1818) 520 (http://www.john-keats.com/biografie/blackwood.htm)
– LETTERS OF JOHN KEATS TO HIS FAMILY AND FRIENDS, edited by Sidney Colvin, London 1891 (https://archive.org/stream/lettersofjohnkea00keatiala#page/n9/mode/2up)
[1] Su indicazione del suo tutore Keats intraprese la carriera medica. Ottenne l’abilitazione per far pratica come medico, chirurgo e farmacista, ma la passione per la Poesia virò la strada intrapresa e lo spinse a lasciare la professione medica e a dedicarsi interamente alla Poesia.
[2] John Lockhart “Cockney School of Poetry”, Blackwood’s Edinburgh Magazine, 3 (1818) 520
[3] ossia “scuola plebea” (utilizzato dall’autore dell’articolo con intento offensivo)
[4] L’autore dell’articolo si riferisce alla “scuola di Hunt”. Hunt era uno scrittore e amico di John Keats che lo incoraggiò a scrivere, gli prestò libri e lo aiutò a pubblicare. Non era amato dalla critica del tempo e per un certo periodo di tempo John Keats gli si allontanò, temendo ripercussioni per la propria reputazione.
[5] Quarterly Review 19 (April 1818) 204-08 (http://spenserians.cath.vt.edu/TextRecord.php?textsid=7900)
[6] Lettera ad Hessey dell’8 ottobre 1818 – LETTERS OF JOHN KEATS TO HIS FAMILY AND FRIENDS, edited by Sidney Colvin, London 1891 – (https://archive.org/stream/lettersofjohnkea00keatiala#page/n9/mode/2up)