Le lingue cambiano continuamente anche a causa degli equivoci. L’equivoco (aequa vox, vocabolo uguale o simile che a un certo punto viene usato per un altro significato) è alla base di molte delle storie di parole che abbiamo fin qui esaminato.
Pensiamo al verbo parià (nella nostra lezione 11), che da “digerire” è passato a “divertirsi”, o al pezzotto (lezione 16) che da “pezzo di legno o stoffa” passa a significare “falsificazione” e “oggetto falsificato”, e questo senza che i parlanti ne abbiano consapevolezza: probabilmente qualcuno (un bambino, noi crediamo), sentendo che ci si beava nel rilassamento postprandiale teso a favorire la digestione, ha capito che ci si divertiva; e qualcun altro, sentendo che uno scooter o un’auto era “pezzottata”, ha capito (benissimo) che era stata falsificata la sua identità ed ha usato il termine ampliandolo in più varianti morfologiche, dall’aggettivo (un vestito, un orologio pezzotto) al participio (è pezzottato) al verbo completo (pezzottare come sinonimo tout court di falsificare).
Oggi perciò passeremo in rassegna alcuni clamorosi equivoci linguistici, a volte individuando le metafore (trasposizioni) che ne sono alla base, altre volte divertendoci solo a evidenziare tali equivoci senza poter dire di più per mancanza di notizie.
Si tratta di equivoci spiegabili di solito con la mancata comprensione di una parola o di un’espressione, come quando qualcuno di noi da piccolo credeva che gli spaghetti si mangiassero “ardenti” perché non aveva capito l’espressione “al dente”.
Ma non sempre è così semplice, anche se siamo convinti che molte trasformazioni linguistiche possano aver avuto origine grazie a dei bambini che, avendo frainteso il suono di una parola, hanno poi perpetuato da grandi la parola intesa in quel modo nuovo. Bisogna pensare a bambini vissuti in ambienti poco acculturati o non propensi alla correzione: ma un po’ in tutti gli ambienti avveniva una volta che gli errori dei bambini, anziché essere corretti, venivano perpetuati per divertimento.
A Napoli una volta si diceva che ’e ccannole surano (“i tubi dell’acqua …sudano”). Si esprimeva così quel fenomeno della termodinamica per cui, a causa della differenza di temperatura tra l’interno del tubo e l’ambiente esterno, si forma la condensa, che altro non è se non l’umidità dell’aria che dallo stato di vapore acqueo diventa acqua. Le goccioline sui tubi ricordano davvero il sudore, per cui la fantasia popolare ha parlato di sudore dei tubi stessi. Probabilmente l’espressione viene dall’italiano comune trasudare, magari usato nella stessa errata interpretazione del fenomeno. Ma a noi piace pensare che a Napoli tutto abbia vita, e che i tubi soffrano il caldo e perciò sudino.
Un altro equivoco è quello che fa chiamare chiave terrestre la “chiave d’arresto” dell’acqua. E qui i bambini potrebbero entrarci per davvero!
E a proposito di chiave dell’acqua, quando qualcuno risolve brillantemente un difficile problema, gli si dice: Si’ stato ’a chiave ’e ll’acqua!, e si pensa che l’intervento risolutivo di quella persona abbia funzionato come la chiave dell’acqua che fa uscire il prezioso liquido per permetterci di fruirne. L’espressione è stata illustrata recentemente da Raffaele Bracale (lellobrak.blogspot.com), che ha svelato come in realtà essa derivi da una corruzione di chiave ’e ll’arco, cioè la chiave di volta, quella pietra sagomata ad hoc per incunearsi in alto al centro di un arco tra le ultime due delle pietre (o “conci”) che messe una sull’altra ai due lati costituiscono appunto l’arco. La chiave di volta o chiave d’arco costituisce l’elemento decisivo che scarica sui due pilastri laterali tutto il peso che può essere messo sopra l’arco stesso.
In tempi recenti, come non manca di annotare lo stesso Bracale, la frase si’ ’a chiave ’e ll’acqua ha assunto un significato irrisorio e dispregiativo, indicando, per antifrasi, chi invece non è per nulla risolutivo in qualsivoglia questione. A questa accezione sembra aver contribuito soprattutto la somiglianza del suono chiave con chiavica (propriamente “fogna”, dal latino cloaca rimasto intatto nell’italiano e passato a chiavica in napoletano attraverso la voce tardolatina clovaca nella sua variante clavica), in quella mescolanza di sonorità e significati che è così caratteristica del nostro “parlar napoletano” (per usare un’espressione cara al compianto Renato de Falco e che costituisce il titolo di una delle sue opere).
Procedendo per equivoci, quando piove violentemente (a zeffunno, per intenderci, cioè con una tale abbondanza da “spargere di sotto”, “versare” fino a coprire, in latino subfundere), diciamo che si è scaraventato sulla terra ’o patapate e ll’acqua. Poiché si dice anche patebbate, alcuni hanno pensato a un fantomatico terribile padre abbate, autorità severa e indiscussa di un convento. Altri pensano invece a un “padre del padre” (latino pater patris), con l’evidente senso di capostipite (un po’ come quando diciamo “la madre di tutte …”). Oggi si tende però a mettere quest’espressione, in particolare per la sua variante parapate, in relazione con il verbo greco parapatto, dal significato di “spargere tutt’intorno” (significato parallelo al latino subfundo di cui sopra).
Concludiamo con un’espressione che, nei nostri tempi afflitti da crisi economica, non è un equivoco (purtroppo!) ma una azzeccatissima metafora: l’acqua è poca e ’a papera nun galleggia!