Fino ad oggi sono stati pubblicate dodici opere che qui presentiamo ricorrendo a stralci presi dalle varie prefazioni, corredate da un testo poetico.
Il secondo volume della collana “CentodAutore” delle Edizioni Eureka di Corato (BA), Nimbus (2015), porta la firma di Eugenio Lucrezi, salernitano di nascita (1952), ma residente quasi da sempre a Napoli dove svolge la professione di medico. Dopo aver prefato il volume di Lentini (presentato nella puntata precedente), ora si presenta nelle vesti di poeta.
Sfogliando questo piccolo volumetto di ventisei pagine, ci accorgiamo subito che esso è privo di prefazione (una delle prerogative della collana è affidare le proprie poesie ad una prefazione). Azzardo o scelta autoreferenziale? Nulla di tutto questo, in quanto Lucrezi ha voluto semplicemente stabilire un rapporto diretto tra egli e la sua poesia, senza intermediari, facendosi trainare solo dal ritmo dei testi. D’altronde il riferimento esclusivamente a se stesso, trascurando o perdendo ogni rapporto con la realtà esterna, non gli si addice, in quanto «questa plaquette di Eugenio Lucrezi è una sorta di metalinguaggio che riflette sulle sorti della poesia. Di solito gli scrittori e i poeti sono alieni dall’indicare chiaramente quali siano i riferimenti testuali espliciti e impliciti di un’opera letteraria; ma quello che importa, in sede di lettura, non è tanto individuare tutti i possibili e probabili riferimenti intertestuali ed extratestuali contenuti in un’opera quanto le stratificazioni di significati che sotto stanno alla superficie linguistica del messaggio» (G. Linguaglossa, Commento, in «L’Ombra delle Parole», 12 giugno 2015).
Trainare come, trainare dove? In un porto sicuro o in una tempesta equatoriale? Convinto che non esistono porti sicuri e non possedendo la temerarietà di affrontare uragani, la sua poesia effettua una strambata per indirizzare la prua verso acque più calme che le consente di ispezionare il mondo fin nelle insenature più remote. La sua resta, tuttosommato, una poesia “tranquilla”. «Eugenio Lucrezi già dal titolo vuole richiamare l’attenzione del lettore sulla relazione mimetica che lega gli enunciati del testo ad altri enunciati che l’autore si premura di farci conoscere. «Esercizi mimetici» (con le parole dell’autore) come esercizi di stile, confezionamento di un messaggio intertestuale con rimandi ad autori esterni e interni al testo: Kafka, Properzio, Amelia Rosselli, Sergio Solmi, Ovidio, Tommaso Landolfi e alla musica come ad esempio John Cage» (Linguaglossa, ibid.):
princeps dello scibile rispetto
alla filosofia, branca minore
dell’immaginativo delirare
che fa dell’uomo la piuma e lo svolazzo
di un alato destino,
chiedo che tu, nell’arco di un mattino,
insorga icarico e spicchi un presto volo
su nella mesosfera del palazzo
boreale del mondo, e poi, veloce,
mentre mantieni la dovuta altezza,
vada ad ispezionar, con l’emisfero
secondo della mente, pure l’altro
emisfero, a fianco della stella
del Sud, nell’australe emiciclio;
tanto per tuo dovere esplorativo
di dicitore ricognizionale;
e che poi caschi, tu, beneaugurale,
a capo fitto dentro all’accogliente
sorriso del pianeta disvelato:
che ti prende e ti tiene,
perché galoppi come a te conviene. (p. 13)
Le parole diventano segni numerici, ritmi nello scompiglio indomito di molecole sconfinate di un’avventura, come quando le acque placide del mare si agitano e la visione delle cose assume la dimensione reale, fissandosi anche sulle piccole cose o su quelle devastate ma ancora in grado di attirare l’attenzione, di suscitare meraviglia:
a Bernardo Kelz
È sulla meraviglia, sull’attenzione di non cadere nel disincanto che si basano le poesie di Lucrezi, sulla ricerca dell’impossibile, sulla presenza figurale della narrazione ricognizionale, “lontane da domani e da ieri”, “tra acqua e fuoco”, solo apparentemente elevandosi dalla realtà e farsi trasportare dal vento. La cifra è data da un’avventura terrena che trapassa la presenza «… lassù, come forza / che indomita batte, già trafitta». La presenza di Dio o ricerca della propria anima? Si tratta di un viaggio mentale che porta il poeta fino ai Nambikwara, popolazione del Mato Grosso visitata da Claude Lévi-Strauss negli anni ’40 del Novecento, per farsi preghiera per una nuova vita di “fratellanza” tra le lacrime di una voce che si rivolge ad un tempo trascendentale dove però non trova le risposte.