Ecco un giovane poeta interessante, Cristiano Caggiula (Roma, 1990), autore anche di poesie visuali e di scritture asemiche. In Tagli e credenze (2017), sua terza raccolta poetica suddivisa in tre sezioni, Tagli, Cadenze e Appen-dice, sin dal primo verso (L’uomo in disordine che ci richiama al Marcuse di L’uomo a una dimensione), come annota Francesco Aprile nell’introduzione, ci conduce subito agli intendi-menti del poeta, «un movimento alacre che divarica l’orizzonte di aspettative, il mental set della struttura scritturale che è sottoposto fin da subito a smottamenti, contraccolpi, urlate frantumazioni di senso». E dalle urlate frantu-mazioni si creano lacerti e anafore e enjambement di una realtà dove si è smarrita la decenza e l’autocoscienza di una realtà dove il capitalismo crea sacche di povertà e morti di migranti in mare.
Allora il poeta, anziché innalzarsi sulle macerie, in una sorta di oblio, si pone in contraddizione, in contrapposizione, in guerriero della parola, come quando «Marzo cala il vespro giù per la notte / e congiunge le spighe al sole». È lo stesso Caggiula che traccia la sua linea poetica rivolta alla distruzione del piano segnico e simbolico, per un sovvertimento totale della stessa evocazione:
Un popolo che migra è cosa seria,
migrando il popolo, perde il suo nome
migrando tutta l’origine perde il suo nome
e se non c’è un nome
bisogna cercare un altro nome. Ricordano i
“e un altro nome è dato
e allora si è nominati
e allora si rinasce
e allora si è anonimi”. (p. 23)
Nel vuoto inespresso e inatteso di una quotidianità delirante che prende come spunto un tema attuale quale l’immigrazione attraverso il Mediterraneo, il poeta rimesta il vuoto, insegue il gesto poietico, il rifiuto della sconfitta, dell’alternanza del fuori dalla storia. Restare dentro la storia e il refrain del poeta, evidenziato dalla lettura della contemporaneità, dei fatti tragici che avvengono quotidianamente in ogni angolo del mondo senza soluzioni, dove oltre al nome, l’uomo perde anche la vita e se gli va bene, comunque la dignità e il diritto ad un’esistenza migliore. «Il dramma della migrazione è intagliato nei versi e confluisce peso storico alla raccolta, sancendo, fra l’altro, il passaggio da scissione a lacerazione. La perdita del nome, attraverso la migrazione, comporterebbe la necessità di rifondare un nome, dunque riallacciarsi a quella forza creatrice della lingua come soffio vitale che attraversa la sezione Tagli. Il corpo sociale [politico] e individuale è lacerato dal trauma e da questo costretto a continue riparazioni» (F. Aprile).
In conclusione, diciamo che si tratta «di una poesia che, essendo corpo-attraversato, è portatrice di indirizzi, di tracce, di indizi che si ricollegano, non nell’ordine di lettura, ancora, ma per salti, per tagli in una struttura reticolare che fa del testo un parlato a più voci» (F. Aprile)