Un’opera che riflette le modalità dell’arte dello scrivere. Memoria inviolata in un movimento che rapprende nella particolare conformazione della parola la risorsa di raccordi storicizzati giammai fuggevoli e che in un modo o nell’altro ne orientano l’impronta.
Mi immergo a fluttuare tra una pagina e l’altra mentre l’artista-poeta esplora i tempi della dimensione empirica di un cammino effettuato per attitudini creative e crescente consapevolezza in una presenzialità che non lascia nulla al caso e né in disparte e che procura – pur rispetto all’incisione iniziale (poesie con dediche 1986-2019) – la sensazione di essere nel tessuto di un’esperienza che ha inizio da ogni momento, da ogni dove si intenda incontrare la mobilità di una mente attiva e versatile. E procedo nel frattempo e dal mio osservatorio mutevole Contrappunti variabili si presenta nella sua inarrestabile puntualità ergonomica; nella sua identità scientifica, un’identità dalla quale non sfugge l’immediato visualizzato, quanto pure l’insospettabile nascosto nelle sue fasi.
Una sorta di lucidissimo furore accompagna la coesistenza di follia e la integra nella parola-seme per ulteriori enigmi (così come scrive Moio nell’incipit del volume) in un’attività inesauribile di ragionamento, di maieutica distinzione tra le parti fino al momento attuale di unificazione, là dove l’arte scritturale corrisponde alla vivacità visuale. In tal senso l’operazione unitaria di Moio sfugge a qualsiasi urgenza di codificazione: nell’inclusività aperiodica l’intraprendenza polisemantica dei segni preclude l’accesso all’invecchiamento della parola, al suo ristagno e riprende l’inarrestabile sforzo che pure nel tratto grafico ricompone la pienezza di un percorso tra i segreti sospesi all’interno della vicenda immaginativa, suggerendo una distribuzione che disintegra il tracciato di un’economicità linguistica piegata alle esigenze esteriori di un succedere liturgico da sinistra a destra e, al contrario, disponendo al centro la vitalità intellettuale, in aderenza a una sorta di personificazione della propria attitudine sperimentale, insieme all’instancabile creatività del tratto pratico, tecnico, se si vuole, fortemente congegnato come scultura in movimento e la cui forma si rende accessibile sulla pagina-ambiente. Qui, nel luogo diletto di molteplici variabili tanto intrinseche che ambientali, insiste il valore dell’integrazione delle arti (im)possibili attraverso le funzionalità percettivo-inclusive di un rigore che unisce padronanza intellettuale e impegno ludico in un’attualità incessante. Una consegna, dunque, di sé, in quello slittamento che alla poesia richiede l’utilizzo proteiforme di parole intese a rendere attivo il contesto interno-esterno, visuale e ombrato di condizioni combinatorie rispetto a una cristallizzata catalogazione convenzionale.
Nell’incalzare della lettura, nello scorrere e seguire con riservatezza le pagine del volume che mi proponi, registro soltanto alcuni tratti delle riflessioni che mi sovvengono, cercando di unire spazi volutamente irrisolti insieme a soluzioni inarrestabili come soltanto la poesia può manifestare quando è frutto di un lavoro ponderato, piuttosto che posato sull’esclusività dell’impulso. Analitica, sintetica, l’immagine che promana è un viluppo di logica che, tuttavia, non accantona la priorità del vivere. E già, perché l’esistere non evade dal luogo della poesia: neutra nel suo spazio – aderente ad un fondale da concepire nella vastità dei pensieri, la poesia appare luogo significante all’espressione stessa – luogo dai punti di riferimento imprevedibili nell’atto di puntare a un’infinitezza che supera finanche la certezza localizzante, quanto cronologica. Qui l’autore apre lo scenario e parla di sé attraverso la pulsione delle lettere, variegate all’interno di un alfabeto continuamente gestito a forgiare la struttura nelle sue molteplici intonazioni – là dove avviene il momento di raccordo senza passare da alcuna ridondanza, né andando a fossilizzarsi su rimembranze estranee e ormai prevedibili.
Caro Giorgio, mi chiedi che cosa io pensi del tuo volume. Una koinè modulata per azioni d’arte fuori dai confini di un museo. Tenuta a debita distanza, la musealità sfocia in un’intercapedine formulata per tempi che arrivano a condizionare la tipologia del conoscere per poi racchiuderla in uno scrigno e tradirsi, infine, in effetto illusorio. Al contrario, la tua opera è totalmente nel suo essere poi/etica – lo scrivi tu stesso ed io così procedo: esaltazione delle abilità logiche della parola, essa stessa si dirama in una temporalità tutt’altro che ascosa oppure obnubilata da dimenticanza. Caro Giorgio, quel che ritengo del tuo volume è l’impressione di una porzione significativa di arte-parola sinergica ed estensibile. Luogo aperto di incontri che tali sono, anche quando la tua penna gravita su aspetti in opposizione rispetto al tuo credere poietico. In questo luogo non luogo la parola dice anche (o soprattutto?) quando è silenziosa, quando è maestra di una trama dinamica nel suo astrarsi dalle convenienze, nel suo incedere nelle nevralgiche connotazioni di un’incessante variazione per poi fermarsi – un attimo soltanto – e lasciare al lettore, ma viepiù per concedere a te stesso, quel rappel individuale e altresì condivisibile a una dedica che rileva iniziativa e pregio di inizio al contempo. Così ricevo l’impressione dell’artista-poeta nei tanti Moio storicizzati nel vorticoso itinerario costruito per impressioni, quanto per climi che esorbitano rispetto alle ammalianti analogie prive di risorse.
Dall’esigenza di apporre il sigillo di una meditazione, pervengo quindi all’immagine che nella mente si figura: la tua opera riposta nella zona a te preferibile – l’apertura e l’intelaiatura senza costrizioni – è già dedica e rituale: richiamo per chi conosce; orientamento per chi voglia conoscere di più. Lo vedi? È la persistenza senza troncamenti – immagine ergonomica dell’inoltrarsi nell’interezza di sé. Questo vedo e tale è l’assetto che mi figuro: l’immaginalità letteraria immersa e pure sfuggente al bianco che non fa ombra e che nemmeno impone un’algidità; palcoscenico dove linee di un’assente demarcazione, dove curve di insospettabili proiezioni, svaniscono all’insegna di un movimento che avviene in un territorio districabile intento a vitalizzare ancor di più la scena in insaziabile di diffusione. Eppure una priorità ravviso: è la compositiva vicenda della libertà (emancipazione?) in forma immaginale – maniera identitaria che distingue l’epoca e congiunge le parti in una fluidità in cui intatto è il momento della significazione, pur nella mutevolezza di un impianto calligrammico calibrato da segni e da un’impercettibile cromia che velocizza e, appena possibile, attenua il fermento di un’arte tutt’altro che novizia. E quel che promana con potente (ma non pleonastica e né ridondante) sonorità è una grafia che storicizza lo scenario artistico in un’espressività in continua svolta rispetto all’effimero mediante una polisemicità capace di restituire in superficie la fulminea dislocazione dell’esatta sintassi del pensiero, escludendo qualsiasi declamazione enfatica. In tal senso, l’integrazione epistemica esplicita un ordine individuale che estrinseca dalla poesia l’aspetto e l’idea di un’iniziativa continua e rinnovata – ne concepisco la concretizzazione prescindendo da un iconismo impaziente – sicché la realtà che dalla pagina si proietta e fluttua senza condizioni si presenta semplificata e assolutamente distante da qualsiasi impeto abbreviativo (solutorio e talora ingannevole nella sua laconicità) che ne spogli gli effetti e attiva tra i sensi combinazioni in accostamento aniconico, del tutto indisposto a convalescente e anosmica stasi. E questo perché ne viene eliminato qualsiasi detrimento possa squalificare in un approccio fuggevole: quel che avverto è, pertanto, poiesi critico-analitica, oltre che compositiva, parimenti in grado di concertare e, simultaneamente, concentrare l’abilità che conduce la poesia ad essere essa stessa soggetto e punto di orientamento alla variabilità modellabile (nell’imprevedibilità di superficie) di una geometria le cui prospettive si emancipano, infine, nel momento visuale-mentale.
Quel mondo si apre in una volumetria in assetto bilanciato con le variabilità della natura e del pensiero stesso e rivela una costante inesauribile al di là di qualsiasi provocazione, al di là di qualsivoglia adulterazione. Astenendosi da qualsiasi tentativo di intromissione da parte di una diegesi talora mistificante della propria prospettiva, l’arte convocata in quest’operazione dagli schemi artistici autoidentificativi permette di consolidare le glosse creative che allontanano dalla dipendenza a un solco speculativo della frantumazione, tanto quanto dell’accumulazione fuorviante e distraente rispetto a una pienezza priva di impurità, di proclami iperbolici. Disposta, invece, ad assumere il rallentamento sulle riemergenti fasi, essa è presenza del tutto interattiva, pronta al rilancio di una vera e propria condivisione a più livelli, visibili e non e, soprattutto, ricercabili. Allo stesso modo, riconquista una centralità che, come l’effetto, mutua dalla situazione, dal contesto etico ed estetico disposto tra i giochi algebrici in una dimensione spinta nell’attualità comprensiva di ciò che resta in ombra.
Caro Giorgio, immergendomi nell’accurata lettura, del tuo testo apprezzo quindi altresì il richiamo artistico, lo stesso richiamo che sfugge alla musealità per intraprendere un percorso all’insegna dell’unione; nucleo sintetico di quel che il creativo dice, qualsiasi possa essere il modo, giacché, riprendendo quanto Rimbaud affermava, il vivere conoscendo è la sintesi di vicinanza e lontananza, ma giammai distrazione. Così, nel visuale e tra le intercapedini del visuale che la tua particolare organizzazione verbale (scritturale ed artistica in simbiosi) propone, minutissimi e pertinenti paesaggi si amplificano sulla pagina dedicata e sempre te si scopre, nell’ardore e quanto anche nella brutalità; continuamente lo stupore rinsalda parole nel disegnare il movimento lento e cruciale, qui e là rovente oppure algido, in un’interminabile pertinenza con un raccordo che mantiene te, l’autore, sulla pagina e con il territorio che la pagina stessa, nella sua complessità, scolpisce. Un tracciato intriso di collegamenti – e dal risvolto fortemente autobiografico – inneggia alla longevità (e alla lungimiranza) del molteplice, passando dal compiacimento allo struggimento pudico e coinvolgendo la spazialità oltre i limiti invalicabili del visibile.
Conosco e riconosco da anni le trame della tua scrittura nell’incalzare poliedrico – incisione di una geometria mutevole e piana a un tempo, logica nelle fattezze che riprendono il movimento aureo del pensiero per non lasciarsi sacrificare alle predestinazioni convenzionali –. Non appaia strano questo mio rasentare l’impianto dal punto di vista meramente filologico dell’operazione che tu, Giorgio Moio, svolgi nel raccordo di tanti io: quel che vedo-scruto-fermo e rilascio continuamente è un intraprendimento che ha il tenore del vivere sensibile e consapevole, parificandosi a quella coscienza che soltanto può irradiare non già autoescludendosi nel farsi schermo o riflesso di altrui stati di consapevolezza. Questo il quadro dinamico che ad ogni pagina è sigillo penetrante di anfratti che rigenerano di volta in volta l’ossequio a una volontà di conoscenza e che si irradia dalla struttura del (con)verso e incide o sfiora – senza esaurirsi – nomi, vicende, sbalzi e superamenti nella declinazione di voci e forme alle quali è volta la dedica – per ingegno e gratitudine – della tessitura dell’opera.
Quest’immensa immagine che attrae al luogo di te, di Giorgio Moio, compie la realtà dell’arte nel suo inalterato mondo di incroci e di inesauribile semantica del segno, illuminando pure nell’approccio sregolare quel tratto fantasioso e che ritempra – nel gioco fuori dall’incanto – lo sviluppo eventuale dell’enigma, scansando la sua soluzione (equivarrebbe a finitezza, quel che la poiesi non declama). In questo spazio aperto di fluidità immersiva l’inatteso concilia l’arte del vivere con il vivere l’arte dall’interno: non ambizione a poggiare lo sguardo esterno e ammirare, bensì meditazione intra-sensibile in un interno esterno continui, nella forma di un’epistemica rotta intesa nell’orientamento inesauribile di contrappunti variabili.