Intervista allo scrittore Carmelo Musumeci, autore del libro Diventato colpevole: Il Signore delle bische.
Ciao Carmelo. Il tuo nuovo romanzo racconta una realtà cruda, quella della criminalità. Ti va di parlarcene?
In questo libro continua la mia autobiografia romanzata. Dopo “Nato colpevole”, in cui narro i primi 18 anni di vita, in “Diventato colpevole” proseguo con il racconto degli anni della giovinezza e della scalata ai vertici della malavita. Potrei giustificarmi che sono stato quello che sono potuto essere e non quello che avrei voluto essere.
Potrei dare la colpa delle mie scelte criminali alla mia infanzia infelice o alle botte che ho preso prima in collegio dalle suore e dai preti e subito dopo nelle carceri minorili (a soli quindici anni sono stato legato al letto di contenzione per sette giorni). Io però preferisco non darmi nessuna attenuante perché come dico spesso: “sono nato già colpevole, poi io ci ho messo del mio a diventarlo”.
Nei miei libri uso la formula romanzata per essere libero di poter scrivere la verità perché nelle autobiografie per forza di cose maggiore ti autocensuri.
Cos’è ti ha spinto a scrivere un nuovo romanzo?
Come sappiamo, la letteratura è l’anima di un Paese e sono fortemente convinto che in Italia la giustizia e le prigioni siano quelle che sono anche perché, a differenza di altri Paesi, nel nostro manca una letteratura sociale carceraria. Io nel mio piccolo mi sto sforzando di crearne un perché in un quarto di secolo in carcere non ho fatto altro che scrivere. E spero un giorno di pubblicare tutto quello che ho scritto, ma non è facile, soprattutto per un ergastolano. Non nascondo che in tanti anni ho scritto solo per continuare ad esistere, ma purtroppo sono pochi gli editori che si sporcano le mani pubblicando i pensieri degli avanzi di galera come me.
La stragrande maggioranza delle case editrici preferisce pubblicare le ricette di cucina o le barzellette di Totti per guadagnare tanti soldi ed evitare critiche e guai. Nei miei romanzi non parlo solo di carcere, ma soprattutto di come si arriva al carcere. Scrivo anche per fare sapere alle persone di buona volontà, che vogliono capire che nella maggioranza dei casi il carcere, così com’è oggi in Italia, produce solo tanta recidiva e che una pena crudele e cattiva non fa riflettere sul male commesso.
E che agli ergastolani non servirebbe poi molto per migliorarsi, se non un po’ di speranza e un fine pena.
Credo che sarebbe utile far sapere alla società che una sofferenza inutile non fa bene a nessuno, neppure alle vittime dei nostri reati, per questo ci tengo in particolar modo che i miei libri vengano letti.
Quando ho perso la libertà ho deciso di essere libero e di essere me stesso.
Cosa ha rappresentato per te l’ergastolo ostativo?
L’ergastolo ostativo è una “Pena di Morte Viva”: così gli uomini ombra chiamano la pena dell’ergastolo ostativo. Una non-vita perché gli ergastolani ostativi non vivono, ma sopravvivono.
È una pena senza fine, senza nessuna possibilità di liberazione, a meno che al tuo posto in cella, non ci metti qualcun altro. In altre parole, se parli e confessi puoi uscire, altrimenti stai dentro fino all’ultimo dei tuoi giorni, come nel Medioevo.
Per fortuna dopo 25 anni e dopo vari tentativi, grazie al coraggio di un Tribunale di Sorveglianza, il mio ergastolo ostativo è stato tramutato in quello ordinario che mi ha dato la possibilità di essere in regime di semilibertà prima e ora in libertà condizionale.
Ottenere tre lauree all’interno del carcere per te ha rappresentato una forma di riscatto?
Credo che in carcere quello che manca più di tutto è la mancanza di cultura. Per questo quasi sempre il detenuto esce più prigioniero di quando è entrato.
Leggendo un libro su Don Milani mi aveva colpito questa frase:” Siete proprio come vi vogliono i padroni, servi, chiusi e sottomessi. Se il padrone conosce 1000 parole e tu ne conosci solo 100 sei destinato ad essere sempre servo”.
E ho iniziato a leggere a studiare e non ho smesso più. Sono entrato in carcere con la licenza elementare, quando ero all’Asinara in regime di 41 bis ho ripreso gli studi e da autodidatta ho terminato le scuole superiori. Mi sono laureato tre volte, quella in giurisprudenza l’ho presa soprattutto per difendere me stesso e i miei compagni.
Carmelo, puoi raccontarci della tua vita ora e delle tue future aspettative?
Oggi cerco di essere semplicemente la persona che non sono mai riuscito a essere prima. Nell’attuale regime di liberazione condizionale faccio il volontario nella Comunità Papa Giovanni XXIII che tanto bene mi hanno fatto e che ormai è diventata la mia seconda famiglia, ma desidero con tutte le mie forze tornare a casa dalla mia compagna, dai miei figli e dai miei nipoti da uomo nuovo quanto prima. Per poi attivarmi per iniziare a diventare praticante abilitato in uno studio legale per difende quei detenuti che non hanno avvocato, ovviamente dovrò aspettare i tempi della riabilitazione, ma nel frattempo sarei libero di girare l’Italia per dare la mia testimonianza e per presentare i miei libri.
Per fortuna mi sono inventato questo lavoro di scrittore che mi piace e mi dà anche una piccola autonomia finanziaria. Certamente non mi mancano le difficoltà pratiche, si rifiutano di concedermi la patente che tanto mi sarebbe utile, la paura di non sentire il campanello nei controlli notturni e la difficolta di scrollarmi il carcere di dosso perché quando ti abitui alla cattività per tantissimi anni poi la felicità ti stanca, dà ansia ed è anche difficile da gestire. In un certo modo ti sei disabituato alla felicità. E avvolte penso che sotto un certo punto di vista la vera pena la inizi a scontare quando esci fuori.
Ti confido che a volte ho paura a sentirmi felice perché mi viene in mente quanto sono stato infelice per 27 anni e adesso sento di più il dolore di quegli anni. Poi ho il senso di colpa verso i miei compagni perché io ce l’ho fatta, loro no, perché credo che molti di loro lo meritano più di me. E è assurdo che ce l’ho fatta proprio io che ero convinto che sarei morto in carcere