Il Capodanno, nella tradizione popolare, non è solo il giorno dopo “la grande abbuffata”, è il primo giorno dell’anno in cui ci si augura, come un rituale, un anno migliore di quello passato, soprattutto in fatto di felicità e salute, anche i poeti sono attratti da questo rituale: cancellare il vecchio anno, magari un anno vissuto tra delusioni e sofferenze, e ricominciare auspicandosi buoni propositi per sé e per l’umanità intera.
Eugenio Montale, con Il primo gennaio, che fa parte della raccolta Satura (1971), con un andamento più vicino alla prosa e al colloquiale (la rima gli dà una mano), ci presenta un Capodanno spoglio di festività e allegria introducendoci in un abbrivio di una nuova annata con realismo e oggettività, ovvero ad un ritorno alla vita “dopo la festa”, quasi anonima, convinto «che si può vivere / non esistendo, / emersi da una quinta o da un fondale, / da un fuori che non c’è se mai nessuno / l’ha veduto. / So che si può esistere, / non vivendo, / con radici strappate da ogni vento / se anche non muove foglia e non un soffio increspa / l’acqua su cui s’affaccia il tuo salone.». Poi si ritorna alla routine intima di tutti i giorni, ai gesti quotidiani, iniziando dalle pulizie della casa dopo la baldoria della festa che è presto dimenticata.
Nell’affrontare il nuovo anno, Montale ci accompagna, quasi per mano, nella sua “teologia negativa”, il male di vivere, «pronta ad esprimere dubbi e perplessità che trovano il loro sbocco nella lirica: Non chiederci la parola (1921) che costituisce quasi un vademecum, decifrando le circostanze, gli eventi della vita, quel pessimismo che dominò il suo quotidiano e di cui egli traccia il camminamento [ponendo] in essere l’avvilente stato dell’uomo, in bilico tra l’essere e il divenire, svela una metafora umana precaria, amara, drammatica» (Ninnj Di Stefano Busà, Eugenio Montale e la sua ricerca di verità nel dogma della fede, in «Buongustaio», 13 giugno 2009), convinto che si possa vivere senza esistere e esistere senza vivere; anche in questo Capodanno di festivaiola allegria diffusa tra i suoi ospiti – che egli descrive con distaccato coinvolgimento -, nel momento più intimo, quando alla fine rimane solo con la moglie, il poeta si accorge di essere un estraneo, poco incline al dialogo, in pratica “un pesce fuor d’acqua”. Sono davvero “pesci fuor d’acqua” i poeti?
…
Ora
uscita sul terrazzo, annaffi i fiori, scuoti
lo scheletro dell’albero di Natale,
ti accompagna in sordina il mangianastri,
torni dentro, allo specchio ti dispiaci,
ti getti a terra, con lo straccio scrosti
dal pavimento le orme degli intrusi.
Erano tanti e il più impresentabile
di tutti perché gli altri almeno parlano,
io, a bocca chiusa.
(Eugenio Montale, Il primo gennaio)
Insomma, anche per i poeti il Capodanno è un’occasione per riflettere sul tempo passato e sull’imprevedibilità di quello che verrà. Riflettere sul senso della vita, ispezionare la propria coscienza cercando di darsi delle risposte in un mondo che sembra non dare risposte; prefiggersi degli obiettivi, realizzare qualche progetto. Ma passata l’euforia del momento, i buoni propositi restano tali facendo i giorni tutti uguali e la speranza una chimera. Pessimismo dei poeti? Può darsi, ma i giorni sono sempre di 24 ore.
Secondo Pablo Neruda, in Ode al primo giorno dell’anno, ognuno ha una propria idea di Capodanno e un proprio auspicio per l’inizio di un nuovo percorso; egli ce lo presenta come un cavallino diverso dagli altri, al quale dedichiamo la nostra attenzione affinché si presenti gioioso, accogliendolo «come se fosse / un esploratore che scende da una stella.». Ma resta una considerazione spiazzante: l’attesa sovente non è foriera di gioia, di felicità, di speranze, almeno per Neruda, il quale si domanda, abbastanza avvilito: «Questa fine dell’anno / senza donna e senza figli, / non è uguale a quella di ieri, a quella di domani?».
Come dargli torto! Quante persone festeggiano il Capodanno da sole, lontane dai propri cari e dagli amici, per strada o in qualche ospedale, in carceri o in comunità, nel silenzio e nella disperazione di una festa che diventa un giorno “normalmente triste”? (A conforto di quanto stiamo dicendo, esemplificativa ci sembra una poesia sociale di Erri De Luca, Prontuario per il brindisi di Capodanno, tratta dal volume L’ospite incallito (Einaudi, 2008): «Bevo a chi è di turno, in treno, in ospedale, / cucina, albergo, radio, fonderia, / in mare, su un aereo, in autostrada, / a chi scavalca questa notte senza un saluto, / bevo alla luna prossima, alla ragazza incinta, / a chi fa una promessa, a chi l’ha mantenuta, / a chi ha pagato il conto, a chi lo sta pagando, / a chi non è invitato in nessun posto, / allo straniero che impara l’italiano, / a chi studia la musica, a chi sa ballare il tango, / a chi si è alzato per cedere il posto, / a chi non si può alzare, a chi arrossisce, / a chi legge Dickens, a chi piange al cinema, / a chi protegge i boschi, a chi spegne un incendio, / a chi ha perduto tutto e ricomincia, / all’astemio che fa uno sforzo di condivisione, / a chi è nessuno per la persona amata, / a chi subisce scherzi e per reazione un giorno sarà eroe, / a chi scorda l’offesa, a chi sorride in fotografia, / a chi va a piedi, a chi sa andare scalzo, / a chi restituisce da quello che ha avuto, / a chi non capisce le barzellette, / all’ultimo insulto che sia l’ultimo, / ai pareggi, alle ics della schedina, / a chi fa un passo avanti e così disfa la riga, / a chi vuol farlo e poi non ce la fa, / infine bevo a chi ha diritto a un brindisi stasera / e tra questi non ha trovato il suo.». È una poesia, questa di De Luca, che fa riflettere su due momenti in antitesi: nel mentre c’è chi sta organizzando dove passerà l’inizio del nuovo anno, c’è chi già sa dove lo passerà. E sono coloro che nella notte di Capodanno e nei giorni che verranno, rinunciando per forza maggiore ai bagordi, alla grande abbuffata, sono costretti a lavorare, affinché il mondo, anche quando si festeggia, non si ferma.
Ed è per questo che a Capodanno chi festeggia farebbe bene a pensare un po’ anche a queste persone che permettono di darsi a una serata e a una nottata di baldorie; pensare a un Capodanno diverso, più umano e altruista, perché in fondo il Capodanno è una speranza di vita migliore per tutti, un
…
Giorno dell’anno nuovo,
giorno elettrico, fresco,
tutte
le foglie escono verdi
dal tronco del tuo tempo
[…]
benché tu sia solo un giorno,
un povero giorno umano,
la tua aureola palpita
su tanti cuori stanchi
e sei,
oh giorno nuovo,
oh nuvola da venire,
pane mai visto,
torre permanente!
(Pablo Neruda, Ode al primo giorno dell’anno)
La speranza è la parola chiave; d’altronde la speranza è il motore della nostra esistenza. Anche Giacomo Leopardi ne è convinto, una parola significativa per tutto l’essere umano che in Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere (in Operette morali, Mondadori, 1950), un “speriamo” del venditore in risposta ad una massima del poeta, sempre attuale: «… una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo […] riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice». La vita felice! Appunto: speriamo.