Dal 29 gennaio al 27 marzo 2020, la Fondazione Adolfo Pini presenta la mostra Bongiovanni Radice Una pittura borghese. Per la prima volta, nello spazio al piano terra della Fondazione saranno esposti, in una veste insolita, i lavori pittorici dell’artista, la cui valorizzazione rappresenta uno degli scopi principali dell’Ente.
Renzo Bongiovanni Radice (1899-1970), zio materno di Adolfo Pini, visse e lavorò nell’elegante palazzina di fine Ottocento in corso Garibaldi 2, dove il nipote diede vita alla Fondazione Adolfo Pini anche con l’obiettivo di promuovere l’arte in tutte le sue forme, attraverso studi, esposizioni e il sostegno a giovani artisti emergenti.
Le opere in mostra raccontano la carriera pittorica e l’anima di Bongiovanni Radice, dal ventennio del Novecento fino agli ultimi anni della sua produzione artistica (1970). I cinquant’anni in cui si dipana la sua vicenda sono probabilmente tra i più vulcanici di tutta la storia dell’arte, ma Bongiovanni persegue la sua strada in solitaria, senza preoccuparsi delle “novità”. Cerca infatti di affinare sempre più quell’idea di pittura tradizionale in cui si riflettono mille suggestioni mutuate da altrettanti artisti, che assume allo stesso tempo quell’aspetto di “decoro” tipico della borghesia industriale milanese. Quasi una ricetta: conoscere tutto, prendere il meglio, lasciar sedimentare sino a quando il meglio, raffreddato, non rischia più di bruciare il palato.
I maestri cui Bongiovanni Radice attinge direttamente – per frequentazione o indirettamente – sono: Attilio Andreoli, André Lhote, Arturo Tosi, Carlo Carrà, Alberto Magnelli (nella sua fase figurativa a cavallo del 1930), Maurice Utrillo, Mario Mafai, Virgilio Guidi, Filippo De Pisis, Piero Marussig, Giorgio Morandi, indietro fino a Tranquillo Cremona, a Edgar Degas, persino a Eugène Delacroix. Si riconosce allora una derivazione ottocentesca importante, una pacata adesione agli stilemi del Novecento italiano, senza però il monumentalismo delle figure, che non sono tra i soggetti preferiti di Bongiovanni, dopo il suo primo periodo, e una curiosità spinta sin quasi alla citazione dei vedutisti più famosi tra Sette e Ottocento. Ma ciò che alla fine esce da tutte le opere è la malinconia di un uomo solo con sé stesso, impegnato in un rapporto stretto con la natura – di qui la vocazione al paesaggio -, cui chiede risposte all’esistenza, mentre le città che pure ha amato – Milano, Parigi, Venezia – sono quasi sempre ritratte in inverno e vuote dei loro abitanti.
Prima di essere un pittore, Renzo Bongiovanni Radice è un uomo del suo tempo. Un’affermazione che, applicata al pittore, assume il valore contemporaneamente di una conferma e di una rinuncia. Una conferma, nel senso della sua vocazione artistica e pittorica; una rinuncia, perché l’ambito familiare – cioè il contesto altoborghese entro cui viveva – lo ha amabilmente distolto dal poter vivere appieno questa esperienza esistenziale.
Nessuno lo ha costretto ad occuparsi d’altro, ma la sua certa vocazione malinconica e le difficoltà del sistema dell’arte – così aggressivo e a tratti spietato nella competizione tra artisti – l’hanno indotto a non entrare nell’agone e a rimanere per così dire in bilico tra la pittura come mestiere e la pittura come diletto. Proprio la comprensione della famiglia nei confronti della sua vocazione gli ha consentito di sperimentare in assoluta tranquillità i segreti della pittura.