Inginocchiarsi o non inginocchiarsi: questo è il dilemma. Che sia più nobile dedicare un momento per lanciare un messaggio importante (anche se per nulla sentito) o resistere ai richiami di una semplice moda pur sapendo di andare incontro all’ennesima polemica? Tutto il rumore nato in occasione della partita degli ottavi di finale dei campionati europei tra Italia e Austria sull’inginocchiarsi o meno in segno di solidarietà al movimento Black lives matter ha ridotto a una pagliacciata una giusta istanza. Eppure lo sport, in passato, ha saputo farsi portavoce di battaglie per la libertà e la giustizia.
Razzismo e sport
Una delle immagini più iconiche del Novecento, non a caso, è la premiazione dei 200 metri piani di atletica leggera durante le Olimpiadi di Messico del 1968. Sei mesi prima Martin Luther King era stato assassinato e due atleti afroamericani, Tommie Smith e John Carlos, decisero di continuare a modo loro la battaglia in favore dei diritti umani in un’occasione nella quale sapevano di avere l’attenzione di milioni di persone. Entrambi si presentarono sul podio senza scarpe ma solo con dei calzini neri a simboleggiare la povertà degli afroamericani. Carlos si sbottonò la tuta mentre Smith indossò una sciarpa nera in segno di solidarietà con i lavoratori neri. Carlos portava al collo una collana di perle simbolo delle pietre che avevano linciato i loro fratelli. Fu un gesto molto sentito, studiato nei particolari, e quando Carlos si accorse di aver dimenticato i suoi guanti, Smith gliene diede uno dei suoi. Alla protesta si unì anche l’atleta classificatosi secondo, l’australiano Peter Norman, che indossò la spilla del movimento per i diritti dei neri OPHR (Olympic Project for Human Rights). Il gesto costò ai due atleti neri la sospensione dalla squadra di atletica e all’atleta australiano la partecipazione alle olimpiadi successive. Pagarono così l’aver utilizzato le Olimpiadi per una manifestazione politica. A decidere le misure contro gli atleti fu il capo del Comitato Olimpionico americano, Avery Brundage, lo stesso, per intenderci, che nel 1936 si era opposto al boicottaggio delle Olimpiadi che avrebbero avuto sede nella Germania nazista.
Black lives matter: cosa significa inginocchiarsi
Nel 2016 un altro atleta rimette sotto i riflettori la questione razziale. Parliamo di Colin Kaepernick, quarterback dei San Francisco 49ers che si inginocchia durante l’inno nazionale americano proposto prima delle partite. Quello di inginocchiarsi è un gesto che abbiamo imparato a conoscere dallo scorso anno quando nell’America scossa dall’omicidio di George Floyd si è riaccesa la scintilla della lotta anti razzista ma, in realtà, è nato più di cinquant’anni fa. Siamo a Selma nel 1965, nel pieno delle manifestazioni che chiedevano il diritto di voto agli afroamericani. Martin Luther King, giunto nella capitale dell’Alabama dopo l’arresto di 250 attivisti politici, si unì ai manifestanti guidati dal leader locale Ralph Abernathy e si inginocchiò in preghiera nel pieno spirito pacifista del movimento creato dal pastore protestante. Anche a Colin Kaepernick dopo quella stagione non fu più rinnovato il contratto.
Razzismo e calcio italiano
“Non c’è stata alcuna richiesta e noi non ci inginocchieremo” è stata la posizione del capitano della nazionale italiana Giorgio Chiellini alla vigilia della partita contro l’Austria. Posizione edulcorata, in un secondo momento, da un comunicato ufficiale della Nazionale Italiana nel quale ha specificato che “se troveremo nel prosieguo una squadra che ha questa volontà, il gruppo degli azzurri si unirà per solidarietà e sensibilità, pur mantenendo la convinzione che la lotta al razzismo vada combattuta in un altro modo“. La decisione di non inginocchiarsi in campo prima di una partita non rende il calcio italiano razzista, questo è chiaro com’è chiaro che per combattere davvero il razzismo serve altro. Forse servono istruzioni per gli assistenti di gara nel caso in cui comincino i cori razzisti, forse serve una norma che consenta alle società di ritirare la propria squadra dal campo al primo fischio rivolto a un giocatore di colore senza che la squadra in questione si veda penalizzata o riconoscere persa la partita.
In copertina foto di Michal Jarmoluk da Pixabay