Il benessere psicologico, strettamente legato a quello fisico, si pone da sempre come valore fondante della qualità della vita di ogni singolo individuo. E così, ogni aspetto del quotidiano, dalle dinamiche affettive all’apprendimento in ambito scolastico, dalla gestione dello stress ai casi di violenza subita, fa emergere in maniera prepotente la necessità di costruire quel benessere. In che modo? Attraverso una comunicazione efficace e con particolare attenzione alla psicoeducazione dei giovani.
Ogni personalità ha i suoi sensi unici e i suoi vicoli ciechi, e i disturbi in genere partono da questi per accentuarli. Le relazioni interpersonali giocano in tal senso un ruolo fondamentale così come la necessità di apprendere una modalità di comunicazione autentica ed efficace, ma soprattutto soddisfacente, con se stessi e poi con gli altri. Aumentando la consapevolezza di noi stessi, dei nostri bisogni emotivi, del nostro valore e delle nostre potenzialità, poniamo le basi per rapportarci in modo sano con l’altro. Ne verrà così valorizzata la nostra unicità, rafforzate la proattività e la capacità di scegliere, superato il condizionamento di abitudini deleterie.
Abbiamo approfondito l’argomento con la dott.ssa Anna Lerro, psicologa e psicoterapeuta.
Quanto contano nella costruzione del benessere le relazioni interpersonali?
Secondo Eric Berne, fondatore dell’Analisti Transazionale, tutti noi abbiamo bisogno di stimoli, di sensazioni, di riconoscimento da parte degli altri, di strutturarci in gruppi. Quando l’individuo non riesce a soddisfare questi bisogni, si sente deprivato e prova uno stato di malessere. Qualsiasi gesto, parola, sguardo, comportamento che dimostra che gli altri si accorgono di noi ci porta ad un senso di benessere.
Che legame c’è tra comunicazione e benessere?
Il benessere non è solo assenza di patologia, ma è godere della propria vita, essere soddisfatti di sé, prendersi cura di sé, gioire con l’altro, avere delle buone relazioni. Alla base di relazioni autentiche c’è una comunicazione efficace, in cui l’individuo può esprimere le proprie idee, i propri sentimenti, i propri bisogni prestando attenzione all’altro. Una comunicazione che si basa sul mettere fuori il proprio mondo interiore e allo stesso tempo ascoltare il mondo dell’altro, mettersi nei suoi panni (empatia) può essere un valido aiuto.
L’empatia però si potrebbe rivelare un’arma a doppio taglio. Se infatti da un lato ci permette di capire a fondo l’Altro, dall’altro può portare ad interiorizzare troppo sensazioni ed emozioni altrui, soprattutto quelle negative. C’è un modo per sviluppare una “sana” empatia?
Il “potere” dell’empatia sta nel portarci ad un’apertura alle relazioni interpersonali, a riconoscere, a rispettare ed accettare l’altro anche con le sue diversità. Il rischio che si può correre è quello di perdere di vista se stessi. Quindi mettersi sì momentaneamente nei panni dell’altro, ma allo stesso tempo mantenersi focalizzati sull’ascolto di sé, distinguendo ciò che è nostro da ciò che è dell’altro.
I comportamenti dei giovani sono spesso difficili da decodificare e così si può non capire se stiano vivendo uno stato di benessere o malessere. Quale consiglio in tal senso si sente di dare a genitori ed insegnanti?
Bisogna osservare molto i ragazzi durante le loro interazioni nelle attività di tutti i giorni, perché ci sono dei segnali (gesti, sguardi, postura), dei comportamenti non verbali che possono darci indicazioni. Per esempio un ragazzo che si esprime con un tono di voce basso può manifestare difficoltà ad aprirsi, il rossore in volto può indicare imbarazzo, disagio e così via. La cosa da tenere però sempre in considerazione è che un determinato comportamento non verbale non ha sempre lo stesso significato, c’è una dipendenza che può essere di vari tipi: culturale, sociale, personale, situazionale.