La mia vita con un figlio autistico
Quando lo guardo di spalle nel suo andare dinoccolato e il suo procedere caratteristicamente altalenante, il suo passo sicuro e al contempo stralunato, sarei capace di riconoscere mio figlio anche fra mille.
Vi hanno mai parlato di ‘Autismo’? La domanda si appalesò dopo un pomeriggio trascorso al Policlinico in una lunghissima seduta. “Disturbo generalizzato dello sviluppo, della relazione e della comunicazione: Sindrome Autistica” la diagnosi scritta su un foglio di carta intestata della Cattedra di Neuropsichiatria Infantile dell’ Università di Napoli.
Non ce ne rendevamo conto: la nostra vita era già cambiata. Ce ne siamo dovuti rendere conto forzatamente, in quel momento non sapevamo cosa ci aspettava, ma ce ne potemmo accertare immediatamente iniziando la trafila burocratica per avere (per lui ahimè!) il riconoscimento di persona portatrice di handicap.
Quella parola cominciava a fare capolino all’interno del mio vocabolario e non ne sarebbe più uscita. La prima visita all’ASL di competenza a Napoli ci fece confrontare con un neurologo (non neuropsichiatra ma neurologo) che ammise candidamente di non conoscere la patologia ma al contempo ci concesse una terapia riabilitativa a base di Psicomotricità e Logopedia (che solo dopo abbiamo scoperto essere prassi sì, ma del tutto inutili).
Il bello, si fa per dire, arrivò al momento della visita (un’altra) per la concessione del riconoscimento ai sensi della L.104/96, quando una commissione di soloni dell’ASL NA 1 squadrandoci da capo a piedi e di fronte a mio figlio che girava all’impazzata nella stanza in preda ad un’ansia che moltiplicava la sua iperattività, ci elargiva quel marchio che mai avrei voluto: “Minore incapace a svolgere gli atti della vita quotidiana”.
Con quel marchio mio figlio è arrivato a scuola dove, mentre i compagni ad ogni livello lo hanno sempre accolto e finanche protetto anche quando i suoi atteggiamenti strambi erano molti più di quelli che sono oggi dopo quindici anni di terapia, mi sono dovuto confrontare con l’assoluta mancanza di cognizione di causa degli insegnanti e pregare, io ateo convinto, ogni anno d’incontrare una persona (una maestra, un professore) di buona volontà perché nessuna scuola ha in suo carico profili professionali formati per trattare bambini autistici e a molti non importa proprio. Il problema più grosso era che mio figlio non era autonomo per le funzioni fisiche primarie e il problema ancora più grosso era che a provvedere a inviare gli assistenti materiali a scuola deve essere il comune e ogni anno è sempre stata una lotta immane, prima i volontari, poi le cooperative, poi Napoli.
Un soggetto autistico avrebbe bisogno di una presa in carico totale in cui famiglia, servizio sanitario, scuola e ogni altro soggetto interessato dovrebbe interagire con l’altro per il suo miglioramento ma tutto ciò, e non solo qui in verità, non è possibile.
Fin da subito abbiamo dovuto capire che mio figlio aveva bisogno di noi, di me, e potevo cercare di dargli qualcosa solo se mi fossi dedicato completamente a lui, ovviamente sia il lavoro che la vita interpersonale sono diventati per me, ma anche per tanti altri familiari di persone autistiche, aspetti secondari.
Quotidianamente ci scontriamo con regole assurde. Mio figlio è sottoposto a visita di revisione ogni due anni quando è risaputo che l’Autismo è una patologia a vita ma l’INPS non lo sa, con l’indifferenza delle persone. All’ufficio H del Comune mi recai un giorno per chiedere il famoso dischetto per il parcheggio.
L’impiegato dell’ufficio H cortesemente e fermamente mi disse e mi fece costatare che l’Autismo non rientra nell’elenco delle patologie ammesse all’agevolazione; mi disse testualmente: “suo figlio deambula tranquillamente, non ne ha bisogno”.
Certo, mio figlio non gira su una sedia a rotelle; mio figlio è un ragazzo dai tratti gradevoli (qualcuno dice bello); ha anche delle capacità canore; ma mio figlio canta dovunque si trovi, tocca le persone che incontra e specie quelle con gli occhiali, si arrabbia per un nonnulla.
Mio figlio è capace di slanci affettivi (abbracci, baci, strette di mano) che ti lasciano senza fiato ma è capace anche di ingaggiare una lotta fisica in cui la sua forza si centuplica rispetto al suo peso. Ha una capacità innata nel capire chi lo accetta e chi no. E non è mica finita qui. Ora compirà diciotto anni e scomparirà come persona, perché in Italia un autistico esiste solo fin tanto che va a scuola o in riabilitazione, dopo diventa solo un peso per la società che lo rinvia al mittente familiare.
Tutto questo lo scrivevo due anni fa, l’ho voluto riproporre perché oggi è la giornata mondiale della consapevolezza dell’autismo e, puntualmente, quanto avevo scritto nella chiosa del pezzo di due anni fa si è verificato.
Le terapie sono finite d’incanto ai diciotto anni e un giorno, finanche la ricerca di un semiconvitto che lo potesse ospitare e ‘tenere vivo’ è andata persa perché la sanità in Campania taglia e non si cura delle persone; perché un autistico – e tutti i malati cronici – prima di essere tali sono Persone; ma i bilanci pubblici e il menefreghismo politico tutto ciò non lo considera affatto.
Oggi, l’unica risorsa per questi ragazzi è la famiglia, quella stessa famiglia entro la quale spesso si verificano tragedie incommensurabili solo per “stanchezza”, solo perché queste famiglie sono condannate alla morte civile se vogliono tenere in vita il proprio caro.
Mio figlio ha me e la sua famiglia, ma io non sarò eterno e nemmeno gli altri componenti delle migliaia e migliaia di famiglie con la mia stessa identica situazione. Quando noi non ci saremo più a chi passerà l’eredità di questa responsabilità? Non certo ad un sistema sanitario insulso, non allo stato che pulisce la propria coscienza (ammesso che ne abbia una) con l’elemosina di una pensione di ben euro 290 mensili.
Chi si prenderà cura di questi ragazzi? Altri familiari, per creare altre famiglie civilmente morte prima ancora di nascere?
Si, non ci sono risposte perché un autistico è ancora oggi un peso per la società, questa è l’amara verità!
Avanzi la ricerca, ci si adoperi per fare anche un solo passo avanti nella cura della malattia; ma se veramente vogliamo darci l’appellativo di mondo civil, allora si prenda carico di queste persone dando loro dignità di vita e alle famiglie la possibilità di essere nuclei attivi nel tessuto sociale.
Civiltà è una legge sul caregiver ferma a fare le ragnatele nei cassetti dei pubblici poteri, civiltà è una riforma che preveda la possibilità pratica per le persone con Autismo di essere attive e produttive.
Un autistico non è un genio ma non è nemmeno un peso per la società, è una persona con cui è bello vivere.