Mercoledì 5 agosto è stata approvata la prima legge nazionale sull’Autismo (testo completo qui). Il provvedimento non contempla voci riguardanti solo il miglioramento delle condizioni di vita delle persone con sindrome dello spettro autistico, ma prevede anche l’inserimento dei trattamenti nei livelli essenziali di assistenza, l’aggiornamento delle linee guida per prevenzione, diagnosi precoce e cure individualizzate, mediante l’impiego di metodi e strumenti basati sulle più avanzate evidenze scientifiche disponibili. Il Ministero della salute promuove inoltre lo sviluppo di progetti di ricerca riguardanti la conoscenza del disturbo e le buone pratiche terapeutiche ed educative.
La vita quotidiana di un autistico si immerge in un clima di comunicazione spesso frammentaria, equivocata ed equivocabile. Non possiamo tuttavia dire che essi non siano in grado di comunicare, tutt’altro: comunicano, ma in una modalità che all’esterno può apparire anticonvenzionale e a tratti bizzarra. Eppure tale deficit comunicativo assume una valenza diversa quando ci rendiamo conto che l’uso di questo linguaggio particolare risponde unicamente ad un modo di diverso di comunicare.
Abbiamo voluto approfondire l’argomento con il Dott. Pasquale Saviano, psicologo psicoterapeuta, coach di uno studente autistico presso l’Università Federico II, per conto del Centro Ateneo SInAPSi.
Uno dei fattori chiave nella diagnosi dell’autismo è la comunicazione, che nelle persone con sindrome dello spettro autistico risulta compromessa. Come questa cosa si ripercuote sulla sfera socio-relazionale?
Senza comunicazione non c’è relazione. La comunicazione è quindi la base della relazione tra individui. Quando parliamo di autismo, parliamo di una sindrome che va letta in chiave bio-psico-sociale e che si traduce nella mancanza di capacità di relazionarsi agli altri per incapacità comunicativa sia verbale che non verbale. Ciò significa che un soggetto autistico tenderà ad estraniarsi dalla realtà circostante perché non ha gli stessi modi di comunicare che ha la società e nel contempo la società non ha i modi di comunicare di cui ha bisogno l’autistico.
Senza comunicazione non c’è relazione. La comunicazione è quindi la base della relazione tra individui. Quando parliamo di autismo, parliamo di una sindrome che va letta in chiave bio-psico-sociale e che si traduce nella mancanza di capacità di relazionarsi agli altri per incapacità comunicativa sia verbale che non verbale. Ciò significa che un soggetto autistico tenderà ad estraniarsi dalla realtà circostante perché non ha gli stessi modi di comunicare che ha la società e nel contempo la società non ha i modi di comunicare di cui ha bisogno l’autistico.
Lei dice in pratica che gli autistici processano le informazioni in modi differenti dai non autistici, che invece sono in grado di sviluppare molteplici stili cognitivi per selezionare le informazioni, concettualizzarle, memorizzarle, richiamarle alla memoria e usarle. Servirebbe dunque un linguaggio comune per stabilire una comunicazione e comprensione tra questi due “mondi”. È possibile ciò? In che misura?
L’autistico manca di capacità come concettualizzazione, memorizzazione, ecc., motivo per cui, nella relazione che stabiliamo con lui, non è l’autistico che si deve adeguare a noi ma esattamente il contrario. Più specificamente, è necessario capire quali sono le capacità cognitive che egli può mettere in atto, al fine di raggiungere il suo mondo e portarlo in una certa misura a comunicare. Tuttavia non sarà mai una modalità comunicativa come la intendiamo noi. A tal proposito ci giunge in aiuto la cosiddetta “teoria della mente” ovvero l’abilità di intuire o comprendere gli stati mentali, i pensieri, le emozioni, le intenzioni e i bisogni dell’altro sulla base dell’osservazione del comportamento e del contesto. L’autistico è deficitario nella teoria della mente: non potendo dunque sviluppare la tradizionale modalità comunicativa, dobbiamo essere noi a metterlo nelle condizioni in cui il suo linguaggio possa essere capito.
(Per un approfondimento: Linguaggio e teoria della mente – ndr -)
(Per un approfondimento: Linguaggio e teoria della mente – ndr -)
Obiettivo precipuo delle famiglie (ma anche di educatori specializzati, caregivers, ecc) con figli autistici è quello di garantire loro il più possibile autonomia e, conseguentemente, l’inserimento sociale. Quale mezzo potrebbe agevolare il percorso?
Esistono comunità in Belgio e in Spagna, ma molte ce ne sono anche in America, di soli autistici: i ragazzi qui vivono da soli e sono totalmente autonomi. Autonomia che si traduce nell’alzarsi ogni mattina ed avere davanti a sè le figure di ciò che devono fare perché la modalità che hanno loro di percepire gli stimoli esterni è solo attraverso le figure. A mio parere, tra i mezzi destinati ad agevolare l’autonomia dell’autistico vi è proprio lo sviluppo di comunità che prevedano l’inserimento di ragazzi autistici. Comunità protette, dove non vengano assolutamente ghettizzati, ma nelle quali possano agire la loro sindrome, avere cioè la piena libertà di osservare le modalità comportamentali che prevede l’autismo.
Una tecnica al centro di critiche ma anche considerazioni positive è la cosiddetta comunicazione facilitata, nata per favorire la comunicazione tra l’autistico ed il mondo che lo circonda. Di cosa si tratta?
Quella invece più utilizzata con gli adulti è la mediazione comunicativa attuata da un facilitatore della comunicazione, attraverso cui l’autistico può esprimere il proprio vissuto, le proprie conoscenze e i propri pensieri utilizzando la tastiera di un computer. Nello specifico, il facilitatore accompagna la scrittura di frasi sovrapponendo la sua mano a quella dell’autistico sulla tastiera: man mano che si va avanti nella riabilitazione, il mediatore sposta la mano sull’avambraccio, poi sul braccio e via via fino alla spalla.
Nonostante vi siano in tal senso risultati indiscutibili (cfr. ad es. la testimonianza di Dario D’Albora nel libro “Il viaggio dell’inclusione” di Paolo Valerio), personalmente sono un po’ scettico: chi scrive? l’autistico o il facilitatore che gli poggia la mano? Tralasciando queste perplessità, in un’ottica più ampia di autonomia e sviluppo ed apprendimento di abilità sociali, la tecnica risulta utile perché permette alla persona autistica di ricevere stimolanti opportunità di interazione.
Quando parliamo di comunicazione facilitata, dobbiamo fare una distinzione. Quella più utilizzata in ambito scolastico è legata soprattutto ad una facilità di comunicazione nei confronti dell’alunno, al quale viene mostrato visivamente ciò che egli deve fare.
Quella invece più utilizzata con gli adulti è la mediazione comunicativa attuata da un facilitatore della comunicazione, attraverso cui l’autistico può esprimere il proprio vissuto, le proprie conoscenze e i propri pensieri utilizzando la tastiera di un computer. Nello specifico, il facilitatore accompagna la scrittura di frasi sovrapponendo la sua mano a quella dell’autistico sulla tastiera: man mano che si va avanti nella riabilitazione, il mediatore sposta la mano sull’avambraccio, poi sul braccio e via via fino alla spalla.
Nonostante vi siano in tal senso risultati indiscutibili (cfr. ad es. la testimonianza di Dario D’Albora nel libro “Il viaggio dell’inclusione” di Paolo Valerio), personalmente sono un po’ scettico: chi scrive? l’autistico o il facilitatore che gli poggia la mano? Tralasciando queste perplessità, in un’ottica più ampia di autonomia e sviluppo ed apprendimento di abilità sociali, la tecnica risulta utile perché permette alla persona autistica di ricevere stimolanti opportunità di interazione.