Artemisia Gentileschi, nata a Roma l’8 luglio 1593 e morta a Napoli il 14 giugno 1653, è stata la prima donna ad entrare con tutti gli onori nella storia della pittura e in un’epoca in cui giganteggiava la figura di Michelangelo da Merisi detto il Caravaggio. Per una donna all’inizio del XVII secolo dedicarsi alla pittura, come fece Artemisia, era una scelta poco comune e difficile, ma non eccezionale. Prima di Artemisia, tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600, altre donne pittrici esercitarono, anche con buon successo, la loro attività, ma nessuna raggiunse il suo prestigio e la sua fama.
A nessuna donna era data allora la possibilità di esercitare il proprio talento nel campo delle arti figurative, essendole vietato l’accesso alle botteghe e alle scuole di formazione dove esercitare il praticantato. Ma Artemisia nacque, per certi aspetti, in una situazione privilegiata, era figlia primogenita del pittore toscano Orazio Gentileschi (esponente di primo piano del caravaggismo romano) e di Prudenzia Montone, mancata prematuramente. La bambina crebbe nella bottega del padre, il quale scoprendone il precoce talento le rivelò tutti i segreti del mestiere, e, in un quartiere popolato inoltre da pittori e artigiani, inevitabilmente la pittura finì per esercitare su di lei una forte attrazione. Rapidamente si impadronì delle tecniche pittoriche di scuola caravaggesca di cui il padre era un riconosciuto rappresentante. Ebbe anche l’occasione di conoscere personalmente Caravaggio che frequentava saltuariamente la bottega di famiglia.
La prima opera attribuita alla diciassettenne Artemisia è la Susanna e i vecchioni (1610) dove è possibile riscontrare oltre al realismo caravaggesco lo stile della scuola bolognese di Annibale Carracci. Già di fronte a questo quadro suo padre ne elogiava la maturità artistica nonostante la giovane età.
Probabilmente Artemisia, nonostante il riconoscimento paterno, sarebbe restata per tutta la vita al servizio di lui e nessuna commissione importante le sarebbe mai stata assegnata, se un episodio drammatico non avesse messo alla ribalta la sua persona. Appena diciannovenne fu stuprata dal pittore Agostino Tassi che collaborava col padre alla decorazione a fresco delle volte del Casino delle Muse nel Palazzo Pallavicini Rospigliosi a Roma. Lo stupratore inizialmente per evitare la galera offrì, secondo la legge, un matrimonio riparatore che di fatto non potè compiere, dal momento che era sposato e con figli. Di fronte a questa inadempienza Artemisia si rifiutò di nascondere tra le pareti domestiche quella che era considerata la sua “vergogna”, denunciò lo stupratore contro tutti in un processo durissimo, nel quale lei che era la vittima, per dimostrare la sua verità, dovette subire la tortura dello schiacciamento delle dita, la peggiore per un pittore le cui mani sono il più importante strumento di lavoro.
Artemisia, dopo il processo, si vide costretta ad abbandonare Roma per il troppo rumore che le si era fatto intorno. Da questa storia trasse la forza che la portò a credere in se stessa come donna e come artista. Recatasi a Firenze dove restò per alcuni anni, ottenne un enorme successo al punto da essere accettata nel 1616 nell’Accademia delle Arti del Disegno, prima donna ad ottenere tale privilegio; ricevette inoltre la stima di importanti personaggi come Cristofano Allori, il Granduca Cosimo II de’ Medici e, in special modo, della granduchessa-madre Cristina. Si fece amica di Galileo Galilei che era giunto a Firenze invitato da Cosimo nel 1610, con il quale mantenne un lungo rapporto epistolare e di Michelangelo Buonarrotti, il giovane nipote del grande Michelangelo, che le affidò l’esecuzione di una tela per decorare il soffitto della Galleria dei dipinti nella mansione di famiglia, a celebrazione dell’illustre antenato. L’opera, “Allegoria dell’Inclinazione”, ossia del talento, che raffigura una giovane donna che ha le forme della stessa Artemisia, conosciuta oltre che per la sua arte per la sua avvenenza, fu pagata il doppio rispetto alle altre commesse richieste per la galleria di casa Buonarrotti. Proprio a Firenze Artemisia aveva imparato a scrivere. Durante il processo per stupro se ne era dichiarata incapace.
Dopo il periodo fiorentino Artemisia tornò a stabilirsi a Roma come donna ormai indipendente, in grado di prender casa e di crescere le figlie, rivelandosi un’artista di grande sensibilità capace di cogliere le novità artistiche che si affermavano nella capitale. Ma nonostante la sua reputazione d’artista e le buone relazioni, le commesse non furono sufficienti a permetterle il tenore di vita cui era abituata. Così dopo un breve soggiorno a Venezia e un viaggio in Inghilterra dove si trovava il padre al servizio della casa regnante, Artemisia prese la strada per Napoli che sarà la città della sua ultima stagione artistica e della sua morte, una seconda patria che le diede serenità sia nel privato che nel pubblico e enormi attestati di stima. A Napoli, per la prima volta, Artemisia ricevette un incarico che a nessuna donna era stato concesso prima: dipingere tre tele per una chiesa, la cattedrale di Pozzuoli: San Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli, l’Adorazione dei Magi e Santi Procolo e Nicea.
Nel 1916 lo storico e critico d’arte Roberto Longhi, pubblicò un saggio dal titolo Gentileschi padre e figlia, dove collocava Artemisia tra i grandi pittori della prima metà del XVII secolo, proclamandola in assoluto come l’unica donna in Italia degna di chiamarsi pittrice, lodandone la pittura, il colore, l’impasto, la potenza espressiva delle sue figure. Parecchi anni dopo la scrittrice Anna Banti, moglie di Roberto Longhi, nel 1947 pubblicò un libro a lei dedicato. Altre biografie di Artemisia si sommarono. Ma nonostante queste riletture, la figura di Artemisia rimase in ombra fino a quando negli anni ’70 il movimento femminista la elesse a modello della ribellione alle norme sociali del “ruolo”, come simbolo dell’autodeterminazione e del talento al femminile, dando impulso a numerosi studi su di lei che ne approfondirono e misero in luce il personaggio e l’opera.
Nelle pitture di Artemisia il gioco del chiaroscuro “drammatico” cavaraggesco si esprime attraverso figure femminili in grado di mostrare l’insolita forza di “eroine giustiziere” (pensiamo alla “Giuditta che uccide Oloferne”), dove troviamo persino, come dice Longhi, “…l’impassibilità ferina di chi ha dipinto tutto questo…”, una crudezza del racconto pittorico mai accettata socialmente come materia del “femminile”, nonostante quella “crudeltà” sia stata vissuta dalle donne nella storia fin dall’antichità. Spessissimo in queste figure di donne, Artemisia ritrae se stessa, una donna formosa, di prepotente sensualità e energia vitale, con lo sguardo consapevole di chi ha saputo forgiare il suo destino contro ogni avversità. I colori accesi, i potenti contrasti con gli sfondi, la composizione delle figure raccontano la sua travagliata avventurosa vita e la sua fortunata carriera d’artista.
A Roma dal novembre del 2016 a tutt’oggi è possibile visitare al Museo di Roma la mostra a lei dedicata, un’occasione per ammirare dal vivo i suoi quadri che nessuna riproduzione può rendere nella loro bellezza e nella loro intensità coloristica e espressiva. Artemisia racconta in questa esposizione il travaglio della sua epoca, tra tragedia e sfarzosa rappresentazione, con una lucidità, passione e maestria pittorica che con lei appartengono solo al genio del Caravaggio.