Con la successione al trono di re Salman, il 2015 ha visto un significativo ringiovanimento dei vertici governativi e della stessa Casa reale saudita – in primis con la nomina del 56enne Muhammad bin Nayef a Principe ereditario e Ministro dell’Interno, del figlio trentenne Mohammed bin Salman a Ministro della Difesa e del 56enne laico Adel bin Ahmed Jubeir agli Esteri – l’apertura di innovativi sbocchi riformistici in politica interna e l’affermazione di una ben più marcata assertività in politica estera, regionale e internazionale. Con, al centro, il confronto/scontro con l’Iran, esasperato dall’Intesa tra Teheran e P5+1 raggiunta a luglio e le correlate criticità nei rapporti col suo storico alleato americano, nonché la sfida posta dallo Stato islamico nella dinamica politico-diplomatica e militare, siriana e irachena.
Sul versante interno merita un cenno l’esercizio del voto alle donne. È stata una assoluta novità per questo paese ed è il frutto di un percorso iniziato con la decisione, per certi versi storica, di introdurre il voto nella vita politica di quella monarchia, assoluta, certo, teocratica, certo, ma più flessibile di quanto non appaia a prima vista in ragione di un sistema di formazione del consenso e delle decisioni complesso e delicato, radicato nel processo costitutivo stesso dello stato saudita.
Stavo a Riyadh, nel 2005, quando si aprirono per la prima volta i seggi per l’elezione dei consigli comunali. Vi furono ammessi solo gli uomini e l’evento si svolse in un clima in cui era difficile dire se il dato dominante fosse più la voglia di partecipazione o la curiosità.
Le elezioni si ripeterono nel 2011 e furono corredate dall’annuncio che la volta successiva avrebbero partecipato anche le donne, quella metà della mela saudita che pur avvolta in un bozzolo di condizioni di vita per noi incomprensibili e non condivisibili, svolge un ruolo tutt’altro che secondario nella società, anche a livello professionale, commerciale, finanziario, etc.
Seguì un decreto col quale si dispose che il 20% del Majlis al-Sh?r?, assemblea di 150 cittadini comuni nominati dalla Casa reale, con poteri consultivi e propositivi in materia legislativa, fosse composto di donne.
Nel 2015 si è passati all’effettivo esercizio del voto femminile: un passo in avanti, piccolo, molto piccolo nella nostra ottica – 130mila iscritte su un totale di 1,35 milioni, 980 candidate su un totale di 5.000 uomini – ma importante in quella saudita dove è percettibile un diffuso fermento riformista, alimentato principalmente dallo strato giovanile formatosi e in formazione all’estero.
Sul versante regionale ha colpito la decisione di Riyadh di attaccare militarmente lo Yemen in un’evidente guerra per procura contro l’Iran, stigmatizzato come il grande istigatore del colpo di stato perpetrato dagli Houthi ai danni del legittimo presidente Abd Rabbih Man??r Hadi. E ha colpito il vistoso segnale di leadership e di potenza di fuoco che Riyadh ha voluto dare a Teheran, a ogni buon fine e a futura memoria, con l’ampiezza dello schieramento militare messo a fattor comune con Egitto, Marocco, Sudan, Emirati, etc.
Dopo oltre 9 mesi di guerra con l’esorbitante costo complessivo – di morti, feriti, sfollati, di distruzioni materiali, ma anche di immagine – che ne è derivato, reso ancor più oneroso dalla crescente consapevolezza della difficoltà di porvi termine con la vittoria militare di una parte sull’altra, è stata imbastita una prova di cessate il fuoco, fragile e controversa, ma ancora in corso, sulla cui base avviare colloqui di pace. A quest’orientamento ha contribuito anche una certa stanchezza affiorata tra gli alleati di una Riyadh propensa a non esasperare ulteriormente i già difficili rapporti con Teheran in un momento in cui la partita siriana è entrata in una fase cruciale. Dove le carte della partita militare anti-ISIS e anti-Assad, sparigliate dalla decisione di Mosca di irrompere direttamente nel teatro di guerra, si sono incrociate con quelle politico-diplomatiche in un’imprevista e significativa accelerazione. Basti pensare alla rabbiosa reazione dell’ISIS con le stragi di Sharm e di Parigi, alla risposta di Hollande, Cameron e Merkel, alla faticosa variazione di rotta da parte di Obama, all’infausto abbattimento del caccia russo di cui Putin ha profittato per mettere all’angolo Ankara.
Su questo sfondo in pieno movimento l’Arabia Saudita ha dato prova di capacità di iniziativa e di realismo. Ha acconsentito sia alla partecipazione dell’Iran al tavolo del negoziato sia alla tesi del ‘male minore’ e dunque alla prevalente priorità dell’ISIS, seppure tarata sulla prospettiva di una dissolvenza a termine di Bashar al-Assad. Ma vi ha sovrapposto due iniziative di rilievo.
Da un lato, promuovendo un incontro a Riyadh dei più diversi esponenti delle opposizioni ad Assad (ad eccezione di al-Qaida) dal quale è riuscita a far estrarre una potenziale controparte del regime di Damasco al tavolo del negoziato, forte di 25 membri, includenti 6 membri della coalizione, 6 esponenti delle fazioni ribelli, 5 dell’NCB (National Coordination Body for Democratic Change, non ostile al regime) e 8 figure indipendenti.
Una mossa di successo sia rispetto al mondo sunnita che al binomio Mosca-Washington che hanno deciso di inserire un formale riconoscimento del contributo di Riyadh al rilancio del processo di transizione siriano nel testo della Risoluzione votata all’unanimità dal CdS delle Nazioni Unite il 18 dicembre. Riconoscimento che Riyadh vorrà capitalizzare al tavolo negoziale che dovrebbe aprirsi a gennaio.
Dall’altro, si è fatto promotrice e guida di una coalizione militare di ben 43 stati musulmani – vi figurano, tra gli altri, Egitto, Giordania, Marocco, Nigeria, Turchia, Pakistan e Tunisia – impegnata a combattere non solo lo Stato islamico ma il terrorismo nelle sue più diverse varianti.
Questa coalizione, che avrà in Riyadh il suo centro strategico e operativo congiunto, criticabile e di fatto criticata per certe presenze quantomeno ambigue, è comunque importante, in se stessa e quale risposta al coro delle sollecitazioni a un forte e visibile coinvolgimento del mondo islamico in questa battaglia contro il terrorismo. Lo è anche in relazione alla diffusa opinione che l’Arabia Saudita – di certo non innocente nella nascita e nel primo sviluppo del jihadismo radicale, ma tra i primi se non proprio il primo (siamo alla fine del 2013) a dare l’allarme sulla minaccia dello Stato islamico e sul fenomeno dei foreign fighters – sia tra i principali finanziatori del terrorismo.
Si tratta adesso di verificarne l’operatività e il grado di partenariato che ne potrà derivare. Ma intanto è stata messa in piedi e dipenderà anche dall’Occidente integrare questo paese e la coalizione cui ha dato vita nell’auspicato, comune impegno contro questo nefasto cancro globale.