Il dubbio sull’essere o meno poeta apre la silloge “Ponti di Corda” di Anna Fresu: Saranno da poeta/ questi versi/ un po’ sghembi/scritti a sera/con la testa/posata sul cuscino?…Saranno questi versi/sassolini/gettati in acqua/per farli schiarire?
E questa ritrosia, accompagnata da una delicatezza lieve, è il segno distintivo di Anna Fresu, poetessa suo malgrado.
Ponti di corda sono i suoi versi, intrecciati a mano con la volontà e l’intima esigenza di dare e darsi una possibilità di incontro, un cammino stabile o momentaneo per chi con lei vorrà percorrerlo.
Ponti di corda/ fra quest’io/ e il sono/
tra il sé e l’altro o il mondo intero, di cui sente d’esser parte:
Niente/ di ciò che esiste/ mi appartiene/Non il tuo viso/il mare/il fiume/il canto./Sono/dentro il tuo viso/dentro il mare/nel fiume/o dentro il suono/di ogni canto./Sono ogni viso/il mare/il fiume/il canto.
Ponti di corda raccoglie 63 poesie di Anna Fresu, con la postfazione della docente di Letteratura italiana e direttrice del Dipartimento di Italianistica all’Università Statale di Cuyo, Mendoza, Argentina, Maria Troiano.
Regista, autrice, traduttrice e studiosa di letterature africane la Fresu è nata a la Maddalena, in Sardegna e si è laureata in Lettere e Filosofia alla Sapienza di Roma. Ha lavorato in Portogallo come mediatrice culturale e ha vissuto in Mozambico dove ha insegnato e diretto la Scuola Nazionale di Teatro e creato e co-diretto il “Dipartimento di Cinema per l’Infanzia e la gioventù” realizzando diversi film che hanno ottenuto riconoscimenti internazionali.
In Argentina, dove ha vissuto fino a pochi mesi fa, ha insegnato Lingua e Cultura Italiana e messo in scena diversi spettacoli teatrali.
Nel 2013 ha pubblicato la raccolta di racconti “Sguardi altrove”, Vertigo ed., mentre sue poesie e racconti sono presenti in diverse antologie. Collabora, inoltre, con riviste on line e blog.
Da poco è tornata a vivere in Italia dove continuerà a scrivere in italiano, spagnolo o portoghese.
Ponti di corda, quelli di Anna Fresu, attraversati in punta di piedi per la profonda conoscenza e il rispetto delle umane avventure, per l’amore in tutte le sue declinazioni, verso un uomo, i figli, la madre e il padre, la sorella, gli amici, un amore che sa gioire e, ineluttabilmente, affrontare la perdita di un amore, dei propri cari o degli amici ai quali non si dice mai addio. Gli amici continuano a camminarci accanto intanto che si invecchia, restando intatti nel nostro ricordo: “Gli amici non se ne vanno/ti camminano accanto/ti stanno appoggiati sul cuore/te li porti con te fino alla fine…”
E l’amore? Ah, quello!
L’amore non esiste./E’ come un dio:/il bisogno di un tratto d’infinito/…E’ un esercizio della fantasia/che ti dà vita/ed insieme ti inganna./E’ chimica volatile/casuale/riveduta e corretta/da un poeta.
E’ dunque la poesia a creare l’illusione dell’amore che tutto sfida e resiste al tempo? “Finito l’inganno del mattino” la consapevolezza e la capacità di serbare il bello vissuto insieme sono la nuova conquista–razionale? – della poetessa, felice, talvolta, d’aver liberato l’altro lato del letto, da occupare col suo corpo, coi libri, un gatto e nuovi sogni, in allegria.
L’ironia è un’arma che le appartiene, l’arma dell’intelligenza e del disincanto, l’arma dell’eterna contraddizione umana tra il bisogno di libertà e d’amore che, come i suoi versi, non può vivere per un solo uomo: “Di uno amo lo sguardo/che si annerisce e brilla/quando incontra il mio./Di un altro amo la voce…/Di lui amo le dita…/Di tutti mi incanta la varietà,…/Di ognuno mi disturba/l’assedio alla mia libertà./Mi rattrista l’incapacità/di scalfire la mia solitudine.”
Ritrosia, delicatezza lieve, amara ironia, generosità e forza, permeano i versi della raccolta “Ponti di corda”, un invito a ridonare l’amore ricevuto e dato, a guardare all’altro quando è più debole all’interno delle mura domestiche o nella realtà sociale.
Nella sua parte finale il verso intimo della poetessa diviene attento alla realtà sociale che la circonda, alla violenza che abita le case “in cui l’amore/sapeva di odio…/dove il “no” non ha posto/e solo conta il desiderio/del maschio…E poi venne lo sparo.”
Attento al dolore delle madri dai fazzoletti bianchi di Plaza De Mayo: “Stavan le madri/lente sulla piazza/non paghe ancore/senza una condanna/dei tiranni/assassini del domani.”
Alla pietas per i corpi clandestini giacenti sul fondo del mediterraneo, alla rabbia e all’intolleranza per le ingiustizie, per il potere sfrenato che si alimenta di sangue, rosso, identico per ogni colore di pelle.
Femmina e femminista, forte tanto da affrontare le sue battaglie di donna e di madre–padre, di metabolizzarle senza anestetizzarsi al dolore altrui, senza perdere la dolcezza del sorriso e il luccichio degli sguardi che le foto ci rimandano.
Quel che è alle spalle è alle spalle, c’è l’oggi da vivere e non da sola: “…tutte le persone che ho amato e che amo/quelle che non stanno più/in questo mondo/quelle che ancora ci sono/ma lontane,/presenze-assenze/nella mia vita/che sempre mi accompagnano./Continuano con me/ora e sempre…”
Parte di un tutto che non si distrugge ma si trasforma lasciando spazi alla speranza così come all’inquietudine del dopo: “Avrà un senso il mio nome?/Avrà un ricordo?/Che resterà di me/…Dove saranno/gli amorosi sorrisi/l’ira, lo sdegno/le carezze e i baci?…”
Scoprire a un tratto
d’essere mortali
vita che fugge
corpo che ti inganna
speranze e delusioni
amori spenti
sensi assopiti
ferite riaperte.
E svegliarsi al mattino
in un bagliore di luci e aromi
un canto nuovo in gola
d’incoscienza e allegria
senza ragione.
E sapere che è ancora Primavera.