Amatrice 5 anni dopo il terribile terremoto del 24 agosto del 2016 è una buona occasione per operare una seria riflessione su quello che è l’Italia di fronte alle calamità naturali che ci hanno colpito negli anni e che cosa rimane di questi eventi anche a decenni di distanza.
Non vogliamo rifare il bilancio tragico di quei giorni e neppure cercare ed additare capri espiatori di quelle che furono le indicibili sofferenze immediate e postume delle popolazioni del centro Italia che da Amatrice ad Accumuli videro letteralmente sgretolarsi i capisaldi delle loro vite in pochi minuti.
Il nostro Paese, purtroppo, non ha vissuto queste storie una sola volta ma tante. Dal Belice all’Irpinia, Da Messina al Friuli è una costellazione di disastri che non si sono fermati solo al momento in cui la terra ha tremato ma, soprattutto, al dopo a tutto quanto non è stato fatto per ricostruire e far nascere da una difficoltà un’opportunità.
Abbiamo citato sicuramente tanti episodi alla rinfusa, volutamente alla rinfusa perché non c’è alcuna logica nella successione di questi eventi ma c’è un’unica logica nella diffusa inefficienza della macchina dei soccorsi e della ricostruzione che in alcuni casi non è proprio mai partita ed in altri viaggia con anni, lustri, decenni di ritardo incolmabile.
Amatrice e non solo, il caso Friuli
Solo il Friuli è stato capace dopo il sisma del 6 maggio 1976 di rimboccarsi le maniche e recuperare territori e attività.
da Wikipedia
Il terremoto del Friuli del 1976 (Orcolat, Orcaccio in lingua friulana)) fu un sisma di magnitudo 6.5 della scala Richter che colpì il Friuli, e i territori circostanti, alle ore 21:00:12 del 6 maggio 1976, con ulteriori scosse l’11 e 15 settembre. È ricordato come il quinto peggior evento sismico che abbiano colpito l’Italia nel ‘900, dopo il Terremoto di Messina del 1908 (magnitudo 7,24 con 60.000/80.000 vittime), il Terremoto della Marsica del 1915 (magnitudo 7,0 con 30.000 vittime), il Terremoto dell’Irpinia del 1980 (magnitudo 6,9 con 3.000 vittime) ed il Terremoto dell’Irpinia e del Vulture del 1930 (magnitudo 6.7 con 1.400 vittime).
L’operosità dei friulani fece capire loro subito che l’unico modo per venirne fuori era contare solo su se stessi e non altro. In un periodo storico dove la Protezione Civile non solo non esisteva ma nemmeno se ne parlava, la fotografia era data dal fatto che «Non si vede più nessuno piangere il secondo giorno dopo il terremoto.» come ebbe a dire Gianni Rodari l’8 maggio 1976 su Paese Sera.
Le mancanze dello Stato in tutti i grandi disastri naturali non si è mai, purtroppo, smentito finora e il caso Amatrice resta iconico fosse anche solo per una questione temporale.
Lo sgomento, l’indignazione, la carità (pelosa) sono le fasi che tutti ricordiamo aver attraversato più di una tragedia.
E’ sempre così, o almeno pare, fin quando si può armare l’orrido carrozzone del teatrino mediatico ecco affollarsi ed affastellarsi persone, iniziative, politici, esperti ognuno con il proprio contributo non richiesto, ognuno con la propria ricetta salvifica. Poi si spengono i riflettori, gli attori vanno via ed il dramma rimane li immutato ed imperturbabile a futura memoria.
Amatrice: cos’era e cos’è
Quei paesini del centro Italia erano molto di più che un puntino su una carta geografica o una tradizione culinaria, seppur tanto famosa nel mondo. Erano carne e pietra, sì quella pietra che disgregandosi tanta carne ha lacerato e tanto dolore ha lasciato.
Erano un economia ed un ecosistema fragile che si reggeva sulla propria capacità di autorigenerarsi malgrado l’invecchiamento della popolazione e la spoliazione del territorio. Il colpo di grazia della terra che ha tremato è stato solo l’ultimo sussulto della matrigna natura coadiuvata dalla stolta mano umana nel corso degli anni.
Cosa è stato fatto per ricostruire? Nulla. Cosa è stato fatto per far rinascere l’economia locale? Nulla. Cosa è stato fatto? Nulla!