Nelle culture storiche primitive, i cosiddetti “folli”, coloro che vedevano ciò che alla maggioranza era precluso, erano considerati privilegiati e predestinati dagli dei; in ogni caso, i loro pensieri divergenti dalla norma accettata non erano affatto considerati in modo negativo. L’atteggiamento della collettività era profondamento diverso da quello odierno, in quanto si attribuiva agli stati di alterazione mentale e alle psicosi un potere magico che metteva in relazione l’uomo con il divino e si accettava, per esempio, il delirio come una strada privilegiata per giungere alla verità. Successivamente, in società più complesse e elaborate la malattia mentale fu vista come conseguenza di colpe morali o di trasgressioni nell’ambito religioso e sociale, ne consegue che i manicomi venivano considerati come luoghi di espiazione per cattive azioni commesse dall’individuo o dalla famiglia. Per cui i malati non furono più considerati come sciamani o veggenti, ma come abitatori degli inferi, come epifania del Male sulla terra.
Alla fine dell’ottocento Jean-Étienne Esquirol affermò che la follia è una malattia della civilizzazione, gettando le basi della psichiatria e aprendo l’indagine alla relazione tra patologia e cultura. Da quel momento si cominciò a comprendere che la follia metteva in luce le incongruenuze e insensatezze di quei modelli che la comunità sana considerava ragionevoli e che studiarla costituiva un aiuto sostanziale a comprendere l’animo umano.
Con Freud e i suoi seguaci si intuì il confine labile tra follia e ragione. In questo confine le arti, dalla musica alla letteratura, dal teatro alla pittura cercarono ispirazione, poiché l’arte come la follia contraddice la norma, apre sguardi nuovi sul mondo e nel rapporto tra psicopatologia e creatività era possibile sfuggire alle maglie di qualsiasi accademismo e accedere a nuovi percorsi. La follia, ammessa dunque nel regno della pittura, della poesia e della musica, ha trovato uno spazio enorme nelle tematiche della cultura moderna e contemporanea. Per molti artisti è stata persino terapeutica, salvandoli dal baratro della perdita di coscienza, potente deterrente contro l’angoscia e il male di vivere. Per altri si sono alternati momenti di lucidità e di follia ma in nessuno dei due ambiti l’artista ha perso la sua creatività.
Nelle arti figurative questo sguardo deviante sul mondo ha avuto famosi esempi.
Abbiamo cominciato il nostro viaggio con la figura di Leonor Carrington, ora vogliamo presentarvi la figura di Aloïse Corbaz, una pittrice svizzera (Losanna, 28 giugno 1886 – Gimel, 5 aprile 1964) che agli inizi del Novecento attirò l’attenzione su di sé pur essendo rinchiusa in un manicomio. La Critica la considerò una delle più grandi rappresentanti dell’Arte Bruta (l’ Art Brut, nata in Francia a metà degli anni ’40), creata da persone che sono estranee alle forme di espressione artistica e ai valori culturali tradizionali e che dipingono con spontaneità, senza norme e senza pregiudizi, spinti da una potente necessità interiore di esprimersi, una pittura informale che fonde l’estetica neofigurativa con la pittura materica. Si diversifica dall’arte naïf, in quanto questa ha come suo scopo un riconoscimento pubblico, mentre l’Arte bruta è di carattere totalmente intimo.
I creatori dell’Arte bruta infatti sono, soprattutto, i bambini, gli squilibrati mentali, i carcerati e gli emarginati sociali.
Il primo a descrivere l’enorme potenziale creativo della Corbaz e il suo fantastico mondo pittorico fu l’artista francese Jean Dubuffet, l’inventore del concetto di Arte Bruta, che la incluse nella prima collezione sull’arte psichiatrica nel 1963 nel Museo di Belle Arti di Losanna e seguì il lavoro di Aloïse per circa vent’ anni, visitandola spesso in Svizzera. Alla morte della pittrice, nel 1964, disse che l’arte l’aveva curata. Dubuffet aveva scoperto il talento di Aloïse grazie a Jacqueline Porret-Forel, una giovane dottoressa che trattava la pittrice e si era subito resa conto che la sua insolita visione mentale della realtà era frutto più dell’enorme talento che della follia. Tanta fu la stima che crebbe in lei verso Aloïse che fece di tutto perché il talento della sua paziente fosse riconosciuto e apprezzato ovunque, persino nel lontano Giappone dove sono state realizzate molte mostre delle sue opere.
Nonostante alcuni articoli negativi riguardanti soprattutto le sue condizioni psichiche, il pubblico le decretò uno straordinario successo, anche di vendite. Prima di morire, nel 1964 entrò a far parte della Società delle donne pittrici dell’Arte Bruta della Svizzera. Il 5 di aprile del 1964 “La imperatrice dell’ Arte Bruta” morì in piena attività mentre dipingeva un’ultima serie di opere dallo stile unico.
Ma ripercorriamo le vicende che portarono questa donna straordinaria a vivere le esperienze del manicomio e a trovarvi dentro, nonostante tutto, le condizioni di una continua creatività. Aloïse ebbe un’infanzia difficile: figlia di un impiegato delle poste, alcolizzato e violento che ben presto abbandonò la famiglia e di una madre che le morì da bambina, restata alle cure della dominante sorella maggiore, sarà costretta a lavorare molto presto, svolgendo varie attività sia in Svizzera che in Germania: fece la sarta, la cantante, la governante e l’istitutrice.
Dopo il liceo, benché avesse sognato di diventare cantante, trovò lavoro come insegnante e governante in Postdam alla corte del kaiser Guglielmo II di Germania. Mentre era qui sviluppò un sentimento ossessivo verso il Kaiser, una passione immaginaria, che la portò ad essere diagnosticata come schizofrenica, per cui venne rinchiusa in un ospedale psichiatrico nel 1918. Nonostante il suo innamoramento regale in quel periodo partecipò alle riunioni del Partito Socialista e espresse attraverso i suoi scritti la sua solidarietà verso gli “ultimi” del suo tempo, i poveri, i malati, i carcerati che considerava vittime di un sistema ingiusto. Alla dichiarazione della prima guerra mondiale rientrò in Svizzera. Qui continuò a manifestare comportamenti che la sua famiglia considerò come esaltati, per cui fu ricoverata di nuovo nell’ospedale psichiatrico di Cery-sur-Lausanne, nel 1918, e poi nell’ospedale di La Rosière, a Gimel-sur-Morges. Durante più di dieci anni mantenne segreta la sua pittura e la sua scrittura, fino a che il dottore Hans Steck, psichiatra, mostrò interesse per la sua arte e non solo la visitò fino alla fine ma si dedicò a conservare i suoi manoscritti e i suoi disegni. Fino al 1936 Aloïse aveva dipinto su carta da imballaggio cucita con filo per raggiungere le grandi dimensioni che voleva per i suoi quadri (a volte però dipingeva anche immagini piccolissime) o sopra frammenti di cartone o sul retro delle pagine dei calendari, usando grafite, tinta, pasta di dentifricio, succo di fiori e foglie pestate.
Dipinse per 55 anni nella totale reclusione, nonostante questo creò nella sua opera una originale cosmogonia affollata di personaggi principeschi e eroine storiche, avvolte da un’aurea magica. Le sue figure abitano regni fantastici in un trionfo di fiori e colori dove si ritrova il tema dei due amanti, la sua passione per l’Opera e per il Teatro. Mentre dipingeva cantava romanze dalle opere di Verdi.
La sua pittura esalta la donna nella sua trionfante femminilità, disegnandola sapientemente con curve voluttuose e capelli fluenti spesso mentre incontra i suoi appassionati amanti in divisa militare. La sua immaginazione pittorica si nutriva di storie d’amore e storiche che riusciva a raccontare con una carica erotica di forte impatto estetico. Usò i colori vividi dei pastelli, delle matite e succo di fiori per riempire interi fogli, immagini di un erotismo e di una felicità del vivere che sembravano estranei alla sua condizione di donna rinchiusa in un manicomio e che sorpresero non poco i dottori dell’istituto psichiatrico. Aloïse dipingeva e contemporaneamente scriveva sul suo stato mentale; nell’estasi della creazione percepiva la sua ostinata passione amorosa e insieme il distacco della sua anima dal suo corpo che gli andavano opacando la lucidità.
Ma nella sua pittura sensuale, densa di colore, fitta di immagini, per un horror vacui che assomigliava a quello in cui le sembrava annegasse la sua mente, la pittrice si rigenerava. E a spingerla verso la riabilitazione c’era anche la sua disponibilità a lavorare per gli altri, a collaborare con le infermiere o i compagni di sorte decorando le stanze per le feste di compleanno e altre celebrazioni, mettendo cura e bellezza in ogni atto. Se fossero già stati inventati gli antipsicotici, cosa che avvenne nella decada del’50, probabilmente la vita di Aloïse sarebbe stata differente e il suo talento avrebbe illuminato solo una vita serena e normale. La Corbaz chiamava il suo talento “miracolo”, “la unica fonte di estasi perenne”. Ci ha lasciato 834 opere.
Di lei ha detto Jacqueline Porret-Forel: “Il suo più grande Desiderio era sentirsi incarnata nei suoi disegni. Era per lei una maniera di esistere, di riprendere possesso di un corpo dal quale si sentiva separata.” E ancora “Niente la faceva più felice che vedersi rappresentata nel fiore o nell’animale che aveva appena finito di dipingere.”
Ed è lì che dobbiamo cercarla, in quell’Eden pittorico che le ha permesso di riscattare, dall’inferno in cui viveva, la sua sorprendente arte.