«Guarda che sale!»
La voce roca della signora M che risuonava nell’atrio le metteva sempre una forte ansia addosso. Alma era spesso in ritardo e non riusciva mai a prepararsi come avrebbe voluto, anche quando iniziava per tempo. Si guardava allo specchio e il suo riflesso le mostrava uno sguardo ancora giovane, ancora vivace, ma già ombrato dal deterioramento che avanzava in lei, rubandole attimi.
Se non avesse saputo chi stesse arrivando, nella frazione di secondo in cui la porta si apriva sarebbe stata comunque in grado di dirlo. Li riconosceva dalla pesantezza dei passi, dalla foga con cui abbassavano la maniglia, dall’irruenza dei gesti. Poi c’era quella fase, che le sembrava troppo breve, ma che era incastrata in un’altra più grande che invece le dava l’impressione di non passare mai, in cui ci si scambiavano saluti e sguardi. Era lo stesso passaggio di tempo impercettibile di quando si strappa un cerotto o di quando si accende un motore: prima erano vestiti, poi già nudi, con i corpi impegnati in una mutua quanto consueta esplorazione, fatta di movimenti ripetuti e familiari.
Adesso la memoria la confonde, ampliando quei momenti, talvolta restringendoli, concedendole solo delle immagini che appaiono a sprazzi, ma il suono stridulo di quell’avvertimento rimbomba nella sua testa più vivo che mai.
«Guarda che sale, eh!»
E poi ne sarebbe salito un altro e un altro ancora. Un giorno, era arrivato lui. Il suo nome non lo aveva mai saputo: i nomi, lì, non erano qualcosa di necessario. Come le altre donne e ragazze, anche lei si era adeguata all’abitudine di chiamare i visitatori in un modo che rispecchiasse qualche caratteristica che poteva distinguerli dagli altri. C’era Il Pelato, Lo Sposato, Quello del Taxi, Il Sorriso Bello. Erano davvero pochi quelli a cui piaceva cambiare; in genere, sceglievano una di loro e tornavano a trovarla per un periodo più o meno lungo. C’era chi veniva per anni, chi per mesi, chi spariva dopo un trasferimento, chi da un giorno all’altro non tornava più. Forse c’era anche chi moriva, chissà: loro, comunque, non lo venivano mai a sapere. La signora M raccomandava a tutte di non affezionarsi, ma ad Alma era capitato tante volte di sentire singhiozzi in un angolo, di udire, di sfuggita, una frase mozzata su qualcuna che “s’era innamorata,” di cogliere, sui volti, un velo di nostalgia dietro quello più pesante della stanchezza.
«Non c’è niente di buono a stare appresso a loro e voi ve lo scordate!» borbottava spesso la padrona, mentre marciava lungo il corridoio stretto e spoglio, facendo tintinnare gli orecchini di metallo colorati penzolanti dai lobi delle orecchie. Era sempre ben curata, la signora M, anche se Alma era convinta che non frequentasse nessun altro luogo oltre la casa. La sera, dopo l’ultimo cliente, si chiudeva nella sua stanza al piano terra e l’intero palazzo cadeva nel morbido silenzio della notte.
Quel giorno, quando era arrivato lui, il cielo era grigio e pieno di nuvole e quando Alma aveva aperto la finestra, il vento freddo di ottobre le aveva colpito la faccia, facendola destare un po’. Era rimasta appoggiata allo stipite per qualche minuto, ad annusare l’aria autunnale; chiudendo gli occhi, le era sembrato di trovarsi di nuovo in campagna, da bambina, e di sentire il rumore dell’erba croccante sotto le suole delle scarpe mentre correva spensierata. Si svegliava sempre prima degli altri solo per poter fare lunghe corse per i campi ancora da arare, fino alla stalla delle vacche, quando tutto era ancora calmo e silente, quando tutto era ancora candido.
«Alma, sale!»
A quel grido, Alma aveva spalancato le palpebre, si era sollevata di scatto e poi aveva chiuso la finestra, occhieggiando l’uscio, in attesa che si aprisse. Ogni sera, la signora M le informava riguardo gli appuntamenti che avrebbero avuto il giorno seguente, tuttavia, con il tempo, Alma aveva capito che anche i frequentatori meno assidui preferivano aderire a una routine di orari, come a rendere le loro visite meno fuori dal comune, più ordinarie. Lui era nuovo, aveva chiesto una ragazza giovane, ma che avesse un po’ di esperienza. «Non vuole una alle prime armi, non fare la timida,» era stata istruita, anche se le era sembrata un’inutile raccomandazione. Non esitava mai nell’offrire quanto veniva chiesto al suo corpo, anzi, aveva la netta impressione che quando la sua mente si distaccava dalla realtà, riusciva a donarsi ancora di più. Era un meccanismo che aveva inizialmente messo in atto come difesa, per paura che una volta rimasta sola non sarebbe riuscita a fare i conti con se stessa, non avrebbe avuto la forza di andare avanti; con il passare delle settimane, però, quella dinamica si era trasformata in un conforto, in una sorta di trance che la trasportava fuori da quel luogo, lontana dalla realtà del presente.
La porta si era aperta lentamente e, quella volta, ad Alma era stato impossibile prevedere chi sarebbe entrato. La prima cosa che l’aveva davvero colpita erano state le mani. Nella sua mente era rimasta impressa l’immagine delle sue dita bianche e longilinee che sfioravano la maniglia, spingendola con un tocco lieve: di tutte le volte che l’aveva incontrato, dopo quella mattinata, quella era la sola della quale conservava ancora un ricordo nitido. L’aveva soprannominato Il Moro, anche se lui non le aveva mai rivelato il suo nome, perché le ricordava una storia che le raccontava suo nonno, di un comandante dell’esercito che combatteva contro i turchi, che sposava in segreto con la donna che ama, ma che poi si toglieva la vita, disperato. Per qualche motivo, così come quel personaggio di fantasia dalla quale era rimasta così affascinata, anche in lui trovava qualcosa di tragico. Una sofferenza celata, un dolore inespresso che percepiva nelle sue carezze e nel suo sguardo. A volte era costretta a distogliere gli occhi dai suoi, per paura di non riuscire a scollarsi dalla realtà e dalla vita che sentiva scorrere così forte in quei momenti.
«Alma s’è innamorata di quello che sale sempre prima di pranzo,» le aveva riso dietro una delle altre, un pomeriggio dopo che lui se ne era andato.
«Non è vero! Sta’ zitta!»
Era terrorizzata dall’idea che si tradisse, dalla paura che la signora M scoprisse le sue fantasie e che lo assegnasse a un’altra ragazza, magari più giovane e più esperta di lei. Improvvisamente, il tempo che passava era diventato essenziale in tutti i suoi secondi e Alma si era ritrovata a soffermarsi sulle curve del proprio corpo, passandovi sopra le mani e immaginandosi che fossero quelle di lui. Per quasi due anni, Il Moro era venuto da lei, solo da lei e con i suoi baci, il suo respiro, i suoi abbracci caldi le aveva regalato delle piccole cornici segrete di gioia. Ogni tanto le raccontava dei suoi viaggi e Alma si perdeva nelle sue parole, concedendo a se stessa di immergersi in quegli aneddoti di mete lontane. Le parlava del cielo africano, di come si era sentito inghiottito dalle stelle, delle notti di velluto immense, che sembravano senza inizio e senza fine, le narrava del mare di cristallo delle terre nordiche, di ghiacci e montagne così alte da perdersi nelle nuvole.
Il Moro non le aveva mai promesso nulla, non le diceva mai quando sarebbe tornato o se l’avrebbe fatto, ma ogni domenica sera la signora M le porgeva un foglietto spiegazzato e Alma tratteneva il respiro, scorrendo la lista di nomi con gli occhi, alla ricerca di quello che l’avrebbe fatta sussultare. Lui c’era sempre, puntuale, come l’augurio di un buon inizio della settimana, finché un giorno, semplicemente, non era venuto più. Alma aveva stretto tra le mani la lista, leggendola più volte, quasi incredula, ma tra i clienti del lunedì mattina il suo nomignolo non compariva. Era rimasta immobile per qualche attimo senza sapere come affrontare quello strappo al cuore che quella delusione improvvisa le aveva inflitto.
«Ve lo dico sempre di non affezionarvi, ma voi fate come vi pare!»
Ad Alma non sembrava possibile che quella frase fosse diretta a lei, era certa che non le sarebbe mai successo e invece se ne stava ferma e imbambolata di fronte alla signora M che scuoteva la testa e le rivolgeva uno sguardo di compassionevole rimprovero. Per qualche settimana aveva coltivato la speranza di rivederlo, ma quel sentimento si era affievolito sempre di più, fino a diventare la cicatrice di una vecchia ferita che qualche volta doleva se stava per arrivare un acquazzone.
Erano passati mesi ed erano passati anni, alcune ragazze se ne erano andate via dalla casa, altre erano arrivate, ma Alma era rimasta lì, a invecchiare insieme a quelle pareti e a quegli odori, che erano diventati consolatori. Ormai da lei arrivava solo un paio di clienti abitudinari, con i quali le sembrava ci fosse quasi un rapporto di confidenza, di affettuosa reciprocità nel tentativo di darsi conforto. Non aveva dimenticato Il Moro, ma lo ricordava come una passione giovanile, forse un’idealizzazione di un sogno d’amore solitario, anzi, rideva con amarezza della propria ingenuità di ragazza. Eppure, quando l’insonnia non le dava tregua e si ritrovava a fissare il soffitto durante le lente ore notturne, ripensava ancora alle stelle del cielo d’Africa e a un paio di occhi scuri che si perdevano nei suoi.
La signora M, che sfoggiava ancora lo stesso cipiglio severo, appena addolcito da una patina di nostalgia, una volta le si era fermata accanto e, insieme, erano rimaste a contemplare il tramonto sopra i tetti della città, tinti di rosso e di arancione.
In quell’attimo di condivisione, Alma si era girata verso di lei, spinta da un guizzo impetuoso di sincerità.
«Io mi sono stancata di fare questa vita,» le aveva confidato.
La padrona di casa era rimasta impassibile e non si era nemmeno voltata. «Va’ a cercartene un’altra, allora.»
Alma non se ne era mai andata.
È arrivato un altro lunedì, un’altra settimana identica a quella appena passata e a quella precedente. Il pentolino sul piccolo fornello a gas in camera di Alma, un lusso che si è concessa da quando le ginocchia le hanno reso più faticoso scendere le scale per recarsi nella cucina comune, è colmo di tè bollente. Se ne versa una tazza e la se la porta alle labbra, guardando fuori dalla finestra. Il cielo è grigio e cupo e le ricorda quello di tanti anni prima, così come la brezza travolgente di ottobre che spalanca con forza un’anta della finestra.
Alma prende un altro sorso di tè e rivolge un ultimo sguardo alle nuvole.
«Sale, eh!» si sente urlare dalle scale.
Raddrizza la schiena, posa la tazza sul tavolino con la mano tremolante, poi si gira verso la porta. È tempo di iniziare un’altra giornata.