L’arte è morta! Il teatro è morto! Tutto è stato detto, fatto, scritto!
Eppure…eppure non possiamo farne a meno, tra l’esigenza di esprimerci e quella di riconoscerci, fare teatro è stato e resta un insopprimibile bisogno umano, un rito che ci accomuna e ci riguarda. Ed un certo tipo di critica, frettolosa e di propaganda, di sicuro ha prodotto nel tempo più danni che spettatori ed incassi. Critici non del tutto preparati nè liberi nel giudizio ci hanno spinti a vedere tanta di quella robaccia da allontanarci per anni dalle poltrone dei teatri e dalle gallerie d’arte, dal momento che un libro decente lo scoviamo da soli.
Poi, un bel giorno, e siamo nella favola, ci imbattiamo in una recensione competente ed appassionata che esplora, tenta di capire, di raccontare tra dubbi e rispetto, un testo teatrale e la sua messa in scena.
Il critico è Alessandro Toppi e dirige e scrive per il webmagazine “Il Pickwick” (che è poi il titolo di uno dei nostri libri preferiti). Scatta l’interesse, la passione e vogliamo seguirlo ed incontrarlo, a nostro avviso è una delle certezze della nuova critica teatrale, ne rappresenta il futuro, è il Delfino dei grandi nomi di un tempo che hanno contribuito a far grande il teatro italiano. E’ un piacere leggere le sue recensioni che non solo appassionano ed informano ma sanno regalare il ritmo e la compiutezza di un racconto e hanno il potere di schiodarci dalla poltrona e condurci a teatro.
Alessandro Toppi si è laureato in Lettere moderne alla Federico II di Napoli, dove è rimasto in qualità di collaboratore per un biennio, il tempo utile a capire che non gli andava di portare ne borse ne caffè al docente e che lo interessava il teatro vivo, vero del tempo presente.
Collabora anche con Hystrio, prestigiosa rivista cartacea di teatro, che lo ha voluto dopo averne letto gli articoli. Scrive di teatro, di drammaturgia e, coraggiosamente, del “Sistema Teatrale italiano“.
Ha pubblicato la prefazione al testo “Patres” di S. Tavano, è membro dell’Associazione dei Critici di Teatro, dà vita, con l’associazione “Accademia dei sensi”, ad un progetto singolare e dal fascino vintage dei “radio days”, che si chiama “RadioScena”. Si tratta di appuntamenti teatrali, radiofonici, condotti insieme a Lina Morselli, per discutere di un autore e leggerne alcune pagine, un modo piacevole per far conoscere, a chi non la conosce ancora, la bellezza del tearo.
Toppi appartiene alla generazione dei trentenni e si dichiara prima di tutto uno “spettatore”.
Lei si definisce “infetto” dal suo amore per il teatro , un “amore che non si limita e non si risolve” e che a noi pare una fortuna. Una passione che l’accompagnerà e la sosterrà, nella sua ricerca, a vita. Come è nata questa passione?
“Al teatro mi sono avvicinato innanzitutto come lettore, furono le parole di Shakespeare, lette e rilette negli anni del liceo, a portarmi in platea e poi… l’innamoramento che si consuma ogni sera e ogni sera si rinnova, e che non accenna a passare.
Da allora qualche migliaio di spettacoli visti, oggi ne vedo circa duecento l’anno. Sono stato un abbonato del Teatro Nuovo e del Mercadante per dieci anni, abbonamento che non ho rinnovato dopo l’arrivo di Luca de Fusco.
Se chiudo gli occhi ricordo il “Faust” di Nekrosius”, “I demoni” di Peter Stein, “L’ultimo nastro di Krapp” di Bob Wilson, “Quer Pasticciaccio de via Merulana” di Ronconi ma anche “A Sciaveca” di M. Borrelli, il recente “Natale in casa Cupiello” di Latella, il “Finale di partita” di Cecchi. Ricordo il primo passo di danza che ho visto fare a P. Delbono, il momento in cui i due attori si sfiorano per la prima volta in “Mari” di T. Caspanello, la luce aperta e le posizioni fisse nei camerini visibili di uno Strindberg di Orlando Cinque. Ricordo l’arrivo del treno ne l'”Anna Karenina” di Nekrosius e la prima volta che vidi, in un teatro vuoto, Fibre Parallele, un giovane gruppo barese che oggi vince premi ogni anno. E ricordo tanto altro ancora“.
Tanta e giusta attenzione al teatro contemporaneo che ha, a nostro avviso, necessità di un confronto, di uno sguardo attento, libero e competente. Quale il compito, oggi, del critico?
“Credo che il compito del critico sia, per dirla con la battuta di uno spettacolo che ho amato molto (“L’uomo nel diluvio” di Malorni), “uscire di casa, osservare, scrivere“. Nulla di più.
Credo che il fondamento dell’attività critica sia la credibilità che faticosamente, si riesce ad ottenere dai prorpi lettori, pochi o molti che siano. Una credibilità fatta di preparazione, di continuità nell’impegno, di chiarezza nelle posizioni assunte e di coerenza e rifiuto di ogni compromesso. Odio i conflitti d’interesse, non ho norme deontologiche da suggerire ma, personalmente, rifiuto ogni altro incarico teatrale che non sia il mio posto in platea.
Scrivo per “Il Pickwick”, un webmagazine davvero indipendente nato due anni fa da un’idea di quattro amici rimasti, all’improvviso, senza il giornale per cui scrivevano. Il Pickwick oggi conta una trentina di firme ed è pensato come uno spazio aperto che chiunque voglia, con competenza, può frequentare, offrendo e condividendo la propria scrittura. Collaboro da un anno anche per Hystrio la più importante rivista cartacea di teatro. Scrivo di spettacoli ma, quando posso, anche di drammaturgia, perchè c’è una nuova scrittura per la scena che merita di essere letta, analizzata e fatta conoscere e crivo anche del “Sistema teatrale” ma sempre cercando di separare l’analisi di una messainscena dalle questioni politiche-artistiche cittadine. Svolgo così il ruolo di testimone, convinto che ancora serva al teatro, ai suoi spettatori, ai suoi artisti. C’è bisogno di ritrovarsi in un confronto quanto più onesto, sincero ed approfondito possibile, con lo sguardo esterno di uno “spettatore” particolare, il critico, appunto”.
Possiamo affermare che è in atto non solo un ricambio generazionale ma una vera e propria riforma della critica teatrale?
“Appartengo ad una generazione di critici che sta cercando, con il proprio impegno quotidiano, di rinnovare la critica e di ridarle la credibilità che ha perduto. Faccio e facciamo critica in un tempo nel quale i cartacei non offrono più pagine alla critica stessa ed in cui le recensioni sono ridotte a quadratini di chiacchiere o sono soltanto un invito promozionale.
Ci stiamo inventando i nostri giornali sul web, ci paghiamo i viaggi che facciamo, in giro per l’Italia, per conoscere il nuovo teatro e proviamo a riscrivere critica cercando di nuovo l’approfondimento che il teatro merita.
Cerchiamo di ottenere la fiducia del lettore che deve poter confrontare la propria visione con quella di un critico o che possa fidarsi di un testimone presente dove lui era assente.
Io cerco di farlo anche rifiutando ogni proposta di collaborazione teatrale e non facendo mai della mia scrittura uno strumento di promozione, complicità o compartecipazione interessata al lavoro dei teatranti.
Questo, io ed i colleghi di altre riviste d’ogni dove, stiamo cercando di fare, autofinanziandoci e vivendo d’altro”.
In particolare lei scrive anche, e senza reticenze, del “Sistema Teatro” e si è guadagnato la fama di “rompiscatole” , fama che a noi piace moltissimo. Cosa la preoccupa?
“Ho scritto una lettera pubblica a Salvatore Nastasi ma solo dopo aver letto e riletto tutto quanto mi capitava a tiro sulla sua (e d’altri) brutta riforma; ho scritto pubblicamente al sindaco De Magistris ed all’assessore Nino Daniele (che mi ha simpaticamente definito un “rompi…”) ma solo dopo aver percepito ed approfondito il momento presente, preoccupato come sono che i famosi “tagli” a Napoli ed ai suoi teatri si trasformino in una nuova dissipazione di soldi pubblici (i fondi europei promessi dal sindaco), affidati a coloro che fanno teatro commerciale o museale da almeno trent’anni. Uno spettacolo brutto è un’occasione sottratta ad uno spettacolo bello e meritevole di apparire. Per questo cerco, per quanto possibile, di seguire anche le dinamiche che regolano il “SIstema teatrale napoletano”.
C’è da restare senza fiato per la propensione al compromesso, all’ipocrisia, alla retorica spacciata per “rivoluzione”, dietro la quale si cela il tentativo di rimanere economicamente a galla pur non avendo una progettualità effettiva.
Sono molto preoccupato come spettatore e non intravedo ricambio generazionale perchè il buon teatro fatica ad essere prodotto e distribuito e le realtà indipendenti che davvero lavorano sul territorio sono sconosciute all’amministrazione.
Il nuovo fatica ad essere ospitato e si scambia la “tradizione” – che è traduzione, cioè tradimento – con la fissità da repetorio, spesso oleografico. Sono arrabbiato perchè il pubblico napoletano vedrà la “Filumena Marturano” di Gloriana e Nello Mascia ma non il “Natale” di Latella.
Si sta riscrivendo una legge regionale senza interpellare – almeno per il momento – i soggetti più deboli del tessuto teatrale campano non facenti parte dell’Agis, e tra questi alcuni dei più vivi. Trovo grave, infine, che non si riesca a fare una mappatura delle realtà tetrali campane che operano con continuità artistica”.
Ecco perchè la potremmo eleggere a nostro punto di riferimento per tutto ciò che concerne il teatro campano e internazionale. E ci chiediamo se la sua passione, il suo rigore, la sua onestà intellettuale abbiano avuto dei modelli.
“No…ma grazie.
I miei punti di riferimento? Adoro la prosa di A. M. Ripellino, capace di farti assistere ad uno spettacolo leggendo le sue recensioni cartacee; ammiro il coraggio recensivo e la curiosità appassionata di G. Bartolucci, che per primo seppe scovare il nuovo teatro frequentando le cantine, gli spazi off dove artisti sconosciuti cercavano di affermare la propria visione. E, più di tutti, il mio riferimento passato è R. De Monticelli, per la sua coerenza, il suo rifiuto per ogni compromesso, la sua capacità di accompagnare il lavoro degli artisti senza mai farsene complice interessato. De Monticelli fu critico e solo critico, “Finchè vuole dio, io faccio solo il critico…” disse a R. Jacobbi quando si parlava dei “critici che ora fanno un pò tutto in teatro”. A lui va spesso il mio pensiero. Certo erano altri tempi ed altri contratti ma alcuni vollero “sporcarsi le mani”, lui no.
Ed oggi ammiro colleghi di altre testate, coetanei come S. Nebbia o R. Francabandera che leggo ogni volta che pubblicano un articolo. Non leggo siti “acchiappaclic”, incapaci di sviluppare un discorso teatrale e culturale efficace ed interessati solo al marketing delle notizie e dei filmati che moltiplicano i contatti.
Il senso del rigore poi l’ho respirato in una sezione del PC dove da piccolo seguivo mia madre impegnata politicamente, ed apparteneva a qualche anziano “compagno” e non a tutti, un rigore verso se stessi che coincide con la stima di sè che occorre mantenere inalterati. Forse è eccessivo e non porta a nulla, non so ma non riesco a rinunciarvi.
Quest’etica ritrovata, riconosciuta in lei ed in altri intellettuali della sua generazione è confortante e rivela l’impegno personale profuso nella preparazione. Quali criteri segue come critico?
“Continuo ad essere innanzitutto uno studente, sempre. Seguo i laboratori teatrali per imparare ad osservare la scena. Ho seguito i sei giorni a Gallipoli di E. Barba, l laboratori di M. Borrelli, di Danio Manfredini al centro Teatrale Umbro, in una chiesa del ‘600 ora sala teatrale. Frequentarli significa anche comprendere quanta fatica, quanta cultura dell’errore, quanto lavorio muscolare e di pensiero si cela dietro un solo minuto di uno spettacolo e credo che questo, oltre ad aumentare il grado di consapevolezza teatrale, induca il critico ad avere sempre rispetto per gli artisti, anche quando lo spettacolo non è all’altezza.
So di commettere errori di valutazione, so che le recensioni si sbagliano molto più di una regia o un’interpretazione, di una drammaturgia. Per questo sento sempre più il bisogno anche di sedermi, zitto zitto, nel laboratorio di un Maestro vero, e cercare di spiare il suo lavoro per comprendere come nasce un frammento teatrale.
– Scoprimi (e prova a raccontarmi) prima che io mi disperda completamente –
Così si sta, al cospetto del teareo, che appare e scompare.