In questa torrida estate potremmo non gustare le deliziose albicocche del Vesuvio. Secondo Slow Food Vesuvio, infatti, gli agricoltori di questa antica varietà di frutta potrebbero decidere di lasciare marcire il frutto del loro lavoro e fonte di reddito sugli alberi.
L’alternativa è svenderle all’industria conserviera a 5 centesimi al chilo dopo aver sostenuto anche il costo della raccolta, uno dei più incisivi del processo produttivo. Dalla rete di Slow Food Campania stanno cominciando ad arrivare le prime proposte di sostegno agli agricoltori, grazie alla mobilitazione del movimento della Chiocciola, delle Condotte Slow Food, degli chef dei ristoranti e delle pizzerie dell’Alleanza e ai Mercati della Terra locali.
Le albicocche del Vesuvio, Presidio Slow Food sono varietà che, maturate a tempo debito, sarebbero acquistate di buon grado. E invece il freddo e la pioggia di questa primavera ne hanno rallentato la crescita facendole arrivare a maturazione insieme alle varietà standard, tipiche di questo periodo. Si tratta di un danno annunciato secondo Gaetano Romano, responsabile dei produttori riuniti nel Presidio Slow Food.
«I nostri contadini sono eroi ma in realtà ma non hanno chiesto di esserlo» dichiara la fiduciaria Slow Food Vesuvio Maria Lionelli. «Devono essere aiutati a combattere il dissesto idrogeologico, gli incendi, i rifiuti e devono essere aiutati a vendere, non a svendere! I contadini vesuviani si sono associati per essere più competitivi, per migliorare la qualità, non per rincorrere le aziende conserviere, per innovare il prodotto e conservare il patrimonio».
I frutteti di albicocchi sono tra i più diffusi nella zona intorno al Vesuvio, dove vengono meglio che altrove. Delle circa cento cultivar registrate negli anni Sessanta ne sono state rintracciate ancora una trentina, ma la maggior parte è ospitata in campi di collezione varietale. Una quindicina di cultivar di albicocco invece è ancora presente in campo in aziende di piccole dimensioni. Molti contadini in passato, sulla base delle promesse delle nuove cultivar, le hanno sostituite disperdendo questo patrimonio immenso di biodiversità resiliente.
«L’agricoltura è il settore che più risente della crisi climatica, ma dobbiamo attivarci per preservare tutto il patrimonio genetico utile a fronteggiare un futuro che si prospetta ancora più duro. Se la politica risponde solo alle logiche di mercato, allora abbiamo perso la nostra unica via di salvezza. Le varietà antiche in un prossimo futuro potrebbero essere le uniche in grado di sopravvivere in uno scenario – non troppo lontano dalla realtà – di clima alterato. Non possiamo permetterci dunque di perdere nessun gene ancora presente in natura. Questa incombenza non può essere a carico dell’agricoltore ma deve essere condivisa dalla collettività ed è su questo che dobbiamo puntare e insistere» ci ricorda Patrizia Spigno, referente regionale del progetto dei Presìdi Slow Food.
«Questo disastro è un’ulteriore conferma: per essere pronti a fronteggiare la crisi climatica bisogna cambiare la cultura agricola e uscire da un modello che premia solo chi ha scelto le varietà più resistenti e produttive. Dobbiamo guardare alla resilienza che si trova nelle varietà locali e tradizionali, ma la politica deve prenderne atto e indirizzare i sostegni all’agricoltura in questa direzione» conclude Giuseppe Orefice del Comitato esecutivo di Slow Food Italia.
Per rispondere a queste crisi Slow Food porta avanti i progetti dei Presìdi e Arca del Gusto, Alleanza dei cuochi, Mercati della Terra e Orti, che rafforzano e promuovono l’agricoltura resiliente e una filiera più giusta.