La nostra scuola viaggia da tempo in mari tempestosi: riforme istituzionali ne hanno condizionato negli anni struttura e funzioni, la società le richiede che forgi un uomo e un cittadino all’altezza delle aspirazioni di tutti, dimenticando che nessuno può essere formato laddove una chiara idea di società non ispiri l’educazione e ne guidi i passi. Chi governa l’ha sempre gestita come un bacino d’utenza che deve corrispondere a immediate esigenze di mercato. Educare per il lavoro non per la vita, miope visione che in una società in rapida trasformazione come la nostra finisce col produrre disoccupati e disadattati. Gli uomini e i cittadini di una società democratica si educano a pensare, giudicare e scegliere, si educano nella passione per il sapere, nell’esercizio delle proprie facoltà, in una visione “partecipativa” e non “economicista” della vita, non nella competizione ma nel rispetto e nella solidarietà verso chi ci accompagna nell’avventura del vivere.
Gli unici ad aver tentato di dare alla scuola un’identità di questo tipo sono stati quei grandi maestri che hanno ispirato intere generazioni di docenti dagli anni ’60 in poi, maestri come Alberto Manzi, Don Milani, Mario Lodi, Gianni Rodari, maestri che hanno fatto riforme sul campo, nell’esperienza concreta dell’insegnamento, maestri che sono stati prima di tutto uomini impegnati nel sociale e nel loro lavoro con lucidità e determinazione costanti, sacrificando molto e credendo fermamente di poter rappresentare la differenza, maestri “rivoluzionari” nel senso più valido della parola. A loro vorremmo dedicare alcuni articoli, alle loro ricerche, ai loro metodi, alla loro “didattica umana”, alla loro “pedagogia delle emozioni”, per cui imparare è un’esperienza che può essere portata avanti solo in una relazione empatica tra docente e studente.
Il 19 maggio scorso nella sede dell’Istituto Italiano di Cultura a Parigi, alla presenza dell’Addetto Culturale Clara Celati e del Dirigente Scolastico Aurelio Alaime, è stato dedicato un evento: “Non è mai troppo tardi, Alberto Manzi, il maestro, lo scrittore, l’uomo” a Alberto Manzi (maestro, pedagogista, scrittore, nato a Roma il 3 novembre del 1924 e morto a Pitigliano il 4 dicembre del 1997), sotto il patrocinio del FAI France, dall’IIC, del Centro Alberto Manzi-Assemblea Legislativa della Regione Emilia Romagna.
L’evento si è articolato in una mostra a cui hanno partecipato le scuole che hanno aderito al progetto biennale “Leggere Alberto Manzi a scuola” a cura della docente Patrizia D’Antonio e in una tavola rotonda da lei diretta che con interventi competenti ha messo in luce la figura di Manzi come uomo e come maestro, aspetti inscindibili nella sua esperienza di vita. Gli interventi, a cominciare da quello della D’Antonio, che ha raccontato come all’inizio della sua carriera abbia voluto conoscere Manzi incontrando in lui una totale disponibilità e proseguendo con quello della moglie, Sonia Boni Manzi, hanno messo in risalto l’estrema semplicità dell’uomo nella vita quotidiana, attento alle piccole cose, capace di stupirsi e mantenere vivo il suo interesse sui fatti e sulle persone, come si è detto “un grande inviato speciale della vita che educa se stesso per educare gli altri”, un uomo libero, senza compromessi, altruista, sorridente, ottimista.
Del resto solo un ottimista poteva credere che una trasmissione televisiva come “Non è mai troppo tardi”, quella in cui insegnava agli italiani a leggere e a scrivere, andata in onda alla RAI dal 1959 al 1968, potesse tirar fuori dall’analfabetismo i moltissimi che vi erano imprigionati dentro. La sua fiducia si tradusse in uno straordinario successo. Un milione e mezzo di italiani furono alfabetizzati e molti di loro presero la licenza elementare. Le sue lezioni pacate, creative, rispettose, comunicative venivano da un maestro che viveva la vita e la sognava combattendo contro le discriminazioni, le ingiustizie, con la ferma convinzione che l’educazione fosse l’arma più potente per cambiare se stessi e il mondo, convinto che tutti andiamo educati alla bellezza. Diceva a sua moglie: ”Se ti restano solo 100 lire, metà spendile per il pane e metà per la bellezza”.
Credeva nel rispetto per i ragazzi alla base di ogni modello educativo: “chi non rispetta i ragazzi non rispetta la vita” e questo nella sua pratica di maestro ha significato rispettare la dignità dell’altro, il suo ritmo di apprendimento, la sua strada per arrivare alla conoscenza.
Come ha ricordato nella tavola rotonda Cristophe Mileschi, docente universitario a Nanterre, la pedagogia di Manzi lotta contro la prontezza del capire e del sapere che vorrebbe economizzare i tempi dell’apprendimento in funzione di risultati stabiliti al di fuori delle esigenze del bambino, ignorandone i percorsi e le sofferenze. Per Manzi lo scopo dell’educazione non è etichettare con precoci valutazioni gli studenti imprigionandoli in schemi da cui non potranno più uscire, come fa una scuola tesa a garantire “lo status quo”. In questo modo si finisce per produrre “negati”, ossia menti in formazione il cui processo di crescita viene bloccato, negando loro l’appartenenza ai vari livelli del sapere e la dimensione del piacere in cui mettere a prova le proprie capacità. Educare è creare un uomo libero perché solo nella libertà può esserci dignità e emancipazione, uomo e cittadino pensanti. Nessuna imposizione può spingere un bambino sulla strada della conoscenza.
Nell’incontro a Parigi l’attore Cesare Capitani ha letto parole di Manzi che racchiudono il suo pensiero: “Voglio far sorgere nei giovani la coscienza dei problemi, non solo la conoscenza”. In questa frase si incarna , come ha messo in rilievo la responsabile del Centro Alberto Manzi in Emilia Romagna, Alessandra Falconi, l’estrema coerenza di un uomo e di un docente che nessuno vuole trasformare in un santino o in modello acritico, ma che si rivela capace da sempre di trasmettere ai docenti che si avvicinano al suo pensiero la certezza che “possiamo farcela”, quando mettiamo tutto di noi stessi nello scopo da raggiungere e quando ciò che ci ispira è un modello di società e educazione che esalta determinati valori in cui crediamo. La Docente Ricercatrice Tania Convertini del Dartmouthe College USA, ha ricordato un altro importante valore in cui Manzi credeva: “Onestà, onestà e ancora onestà, perché è la cosa che manca oggi nel mondo. E poi intelligenza, intelligenza e sempre intelligenza, il che significa prepararsi, riuscire sempre a comprendere e ad amare”.
Questa onestà intellettuale di un’estrema coerenza, nella tavola rotonda è stata evidenziata da sua figlia, Giulia Manzi, con un ricordo della sua infanzia. Avendo letto da bambina il romanzo del padre, “Orzowei”, le aveva rimproverato la morte del protagonista, cosa allora inconcepibile in una storia per ragazzi, al punto che la casa editrice obbligò l’autore a riscrivere il finale dove Orzowei sopravviveva. Manzi lo scrisse in corsivo che tradizionalmente indica un’ipotesi, un sogno, un aspetto onirico e non reale delle cose. A sua figlia rispose che se il protagonista non fosse morto il lettore ne avrebbe avuto la coscienza acquietata e quindi tutto il senso della narrazione ne sarebbe risultato alterato.
Questa onestà significava prima di tutto rispetto di se stesso e delle proprie idee che si erano andate formando attraverso numerose esperienze. Ai tempi degli studi universitari si era interessato a branche differenti del sapere come la biologia, la pedagogia e la filosofia, attraverso le quali aveva elaborato un approccio interdisciplinare e aperto ai problemi. Successivamente l’esperienza di educatore in una prigione per adolescenti gli aveva dato la misura dell’emarginazione come ostacolo alla conoscenza e come ingiustizia da combattere strenuamente. Ugualmente il periodo vissuto in America latina, dove compì diversi viaggi per collaborare alla promozione sociale dei contadini più poveri, lo rafforzò nell’idea che insegnare fosse inseparabile dal lottare per un mondo più giusto e umano. Tornò in Europa deciso a continuare a fare scuola nell’unico modo che gli sembrava legittimo. Neppure nel periodo in cui era diventato famoso per le sue lezioni televisive venne meno ai suoi principi: quando si trovava in disaccordo strappava le indicazioni che gli venivano date dalla dirigenza riguardo al programma che presentava, si serviva di strumenti didattici allora inconsueti con uno stile di insegnamento mai cattedratico ma sempre discorsivo. Utilizzava grandi fogli di carta sistemati su un tripode dove scriveva semplici lettere o parole accompagnate da accattivanti disegni che risultavano particolarmente attraenti per l’utenza. In altri casi utilizzava un proiettore, assolutamente inusuale per allora. La Eri, l’editoriale della RAI, pubblicava poi quaderni con le sue lezioni, a disposizione del pubblico.
Manzi mostrò tutta la sua coerenza soprattutto quando, nel 1981, si rifiutò di redigere le “schede di valutazione”, recentemente introdotte dalla riforma scolastica, giustificando il suo rifiuto con queste parole: “non posso bollare un ragazzo con un giudizio, perché il ragazzo cambia, è in movimento; se il prossimo anno uno legge il giudizio che ho dato quest’anno, l’abbiamo bollato per i prossimi anni“. In conseguenza della sua onesta e coerente presa di posizione venne sospeso dall’insegnamento e dallo stipendio. Data la popolarità del personaggio l’anno seguente il Ministero della Pubblica Istruzione fece pressione su di lui per convincerlo a scrivere le attese valutazioni: Manzi obiettò che se insistevano avrebbe formulato il seguente giudizio uguale per tutti e apposto su carta tramite un timbro: “Fa quel che può, quel che non può non fa“. Il Ministero rifiutò la valutazione timbrata e Manzi ribatté: “Non c’è problema, posso scriverlo anche a penna“.
Centinaia di docenti in Italia ne hanno seguito e ne seguono l’insegnamento, credendo come lui che nessuna società possa prosperare al di fuori di un’educazione che esalti i valori della libertà, della conoscenza, della pace, della solidarietà e della giustizia sociale.
La speranza della scuola sta in tutti loro che nella pratica quotidiana lavorano per il futuro.
Sulla sua vita e carriera è stata realizzata una fiction tv dalla RAI nel 2014. A vestire i panni di Manzi è stato l’attore Claudio Santamaria.