L’agricoltura italiana è la più green d’Europa con 295 specialità Dop/Igp/Stg riconosciute a livello comunitario e 415 vini Doc/Docg, la leadership nel biologico con 72mila operatori del biologico, la decisione di non coltivare organismi geneticamente modificati (Ogm), 40mila aziende agricole impegnare nel custodire semi o piante a rischio di estinzione e il primato della sicurezza alimentare mondiale con il maggior numero di prodotti agroalimentari in regola per residui chimici irregolari (99,4%).
E’ quanto ha affermato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo alla presentazione del “Rapporto sulla competitività dell`agroalimentare italiano” dell’Ismea nel sottolineare che la distintività è l’arma vincente del Made in Italy a tavola sia a livello nazionale che internazionale.
Lo dimostra la netta prevalenza accordata dagli italiani alla produzione agroalimentare nazionale per qualità, genuinità, tradizione e sicurezza tanto che quasi 2/3 degli italiani sono disponibili a pagare almeno fino al 20% in più pur di garantirsi l’italianità del prodotto che si portano a tavola, secondo l’indagine Coldiretti/Ixè.
Un apprezzamento che va tutelato con la trasparenza dell’informazione sulla reale origine degli alimenti mentre ad oggi nonostante i passi in avanti quasi ¼ della spesa è ancora anonima. Di fronte all’atteggiamento incerto e contradditorio dell’Unione Europea che obbliga ad indicare l’origine in etichetta per le uova ma non per gli ovoprodotti, per la carne fresca ma non per quella trasformata in salumi, per l’ortofrutta fresca ma non per i succhi, le conserve di frutta o per gli ortaggi conservati, l’Italia che è leader europeo nella trasparenza e nella qualità ha il dovere di fare da apripista nelle politiche alimentari comunitarie anche con una profonda revisione delle norme comunitarie.
Una premessa per chiedere regole anche a livello internazionale dove le esportazioni hanno raggiunto un nuovo record storico nel 2018 con un aumento del 3,5% dopo il record di 41,03 miliardi fatto segnare nel 2017.
Il nemico più temuto all’estero è il falso Made in Italy agroalimentare che è salito ad oltre 100 miliardi con un aumento record del 70% nel corso dell’ultimo decennio, per effetto della pirateria internazionale che utilizza impropriamente parole, colori, località, immagini, denominazioni e ricette che si richiamano all’Italia per alimenti taroccati che non hanno nulla a che fare con il sistema produttivo nazionale.
Una realtà favorita dal fatto che troppo spesso l’agroalimentare viene considerato moneta di scambio nei negoziati internazionali, dall’embargo russo alla nuova stagione degli accordi commerciali bilaterali inaugurata con il Canada (Ceta) con il quale per la prima volta nella storia l’Unione Europea legittima in un trattato internazionale la pirateria alimentare a danno dei prodotti Made in Italy più prestigiosi, accordando esplicitamente il via libera alle imitazioni che sfruttano i nomi delle tipicità nazionali, dall’Asiago alla Fontina fino al Gorgonzola, ma è anche liberamente prodotto e commercializzato dal Canada il Parmigiano Reggiano con la traduzione di Parmesan. Preoccupano i pesanti squilibri di filiera della distribuzione del valore evidenziati dal rapporto Ismea a danno degli agricoltori, su 100 euro di spesa in prodotti agroalimentari freschi come frutta e verdura solo 22 centesimi arrivano al produttore agricolo ma il valore scende addirittura a 2 centesimi nel caso di quelli trasformati dal pane ai salumi.
Una situazione che è favorita dalle pratiche sleali nella filiera contro le quali occorre intervenire con norme nazionali e comunitarie alle quali sta lavorando con impegno dall’Europarlamento Paolo De Castro ma la Coldiretti ha avviato ormai da tempo anche l’esperienza dei contratti di filiera che via via stanno coprendo le maggiori filiere del made in Italy, dal settore della carne bovina con il gruppo Inalca per 125 mila capi, al contratto con Casillo per 6 milioni di quintali di grano, sino all’ultimo del 28 giugno scorso per 100 mila quintali di olio extravergine d’oliva 100% italiano con Federolio.
Il contratto di filiera è uno strumento dell’economia contrattuale che viene studiato e contrattato tra le parti volta per volta, ma possiamo identificare almeno 3 elementi comuni: il primo riguarda la pluriennalità degli impegni contratti, il secondo riguarda il prezzo pagato dall’industria di trasformazione e il terzo i premi per la qualità. Questo prezzo deve sempre coprire i costi di produzione dell’agricoltore a cui è agganciato un meccanismo che distribuisce il rischio della variabilità del prezzo negli anni in modo equo tra le parti.