Non si può dire che non siano di parola. La strage annunciata dell’Isis a Kabul è giunta con una puntualità da orologio svizzero di precisione. Anzi ad essere precisi dobbiamo parlare di stragi in quanto le esplosioni intorno all’aeroporto sono state multiple ed hanno avuto effetti devastanti in termini di morti e feriti.
Che la situazione a Kabul fosse ‘esplosiva’ in tutti i sensi non era difficile capirlo fin da quando i primi convogli militari americani hanno iniziato a lasciare il Paese. La passeggiata di salute dei Talebani che hanno preso Kabul senza nessuna opposizione aveva, forse, indotto qualcuno a pensare che l’addio all’Afghanistan potesse essere indolore?
Kabul è la capitale dell’Afghanistan ma Kabul non è l’Afghanistan che, invece, è il Paese dei signori della guerra. Tipi molto ben conosciuti dalle forze a stelle e strisce e poi c’è l’oste con cui fare sempre i conti: l’Isis. Ecco i conti erano stati fatti senza il proverbiale oste che ha deciso di far capire a tutti che a quel tavolo c’è un convitato di pietra che sa colpire con durezza affermando: io sono qui.
L’amministrazione Biden si è vista piovere addosso una problematica così pesante e spinosa che la convocazione straordinaria dei vertici di Washington ha assunto connotati drammatici fra chi chiedeva la testa del Presidente subito e chi si fregava le mani pensando già alla scadenza delle elezioni di midterm.
La strage annunciata: la reazione di Biden
Una dozzina di marines americani, intanto, rimanevano uccisi negli attentati dinamitardi e i feriti ancora si stanno a contare. Certo, Biden tra il commosso e l’adirato ha sottolineato come “Il ritiro non si ferma ma la pagheranno”.
La exit strategy americana fa assomigliare sempre più l’Afghanistan al Vietnam, hanno tuonato da più parti . Le differenze ci sono eccome ma sicuramente, se si vuole leggere, una ratio comune in realtà c’è.
Cambiano le amministrazioni ora repubblicane e ora democratiche ma l’imperialismo americano non muta e gli errori di quella democrazia esportata con la guerra sono tutti lì pronti ad essere rinfacciati in qualunque momento.
Il convitato di pietra in Afghanistan rischia di sparigliare i conti prefabbricati della geopolitica mondiale e la lotta innescata fra Talebani ed Isis rischia d’incendiare quel Paese e ridurlo in cenere in men che non si dica.
Non ci sono parti con cui si possa patteggiare; anche la Cina ha dovuto ammettere che è difficile trovare interlocutori affidabili con cui intavolare trattative di qualsiasi tipo, ormai.
La strage annunciata dall’Isis
L’entrata in scena prepotente dell’Isis, con alle porte l’anniversario dell’11 settembre, fa risuonare emblematico tutto il fallimento di un’azione ventennale nata proprio per stanare quell’organizzazione che si era resa madre di tanta atrocità che aveva sconvolto il mondo in poche ore.
Quell’organizzazione è ancora lì e sgomita, con le sue metodologie, per affermare la sua supremazia.
Bastano le minacce americane in piena retromarcia? Risuoneranno da monito le parole di Biden verso chi non ha nessun timore ad indossare una cintura imbottita di esplosivo e farsi esplodere nella folla di un mercato o di quell’aeroporto che le forze statunitensi avrebbero dovuto preservare almeno fino ad esodo compiuto?
Al di là di questo la domanda resta sempre la stessa: cosa sarà di chi dopo il 31 agosto rimarrà in Afghanistan? Importa a qualcuno?