La mpustarella è, si sa, una “colazione fatta con pane e companatico”, è un “panino ripieno” (D’Ascoli), nel quale sia stato inserito (quasi “impostato” come una lettera nella buca, ci verrebbe da dire se volessimo indulgere al gioco di parole) una fetta di qualche salume e/o formaggio.
Naturalmente, se invece del panino usiamo due fette di pane accostate, il risultato non cambia.
Ciò che connota la mpustarella non è solo il modo in cui viene fatta, ma anche l’ora, il momento, che può variare ma è sempre un momento lontano dai pasti principali: metà mattinata o metà pomeriggio (la “merendina” di oggi non ne è che il lontano discendente), e in qualche caso persino metà nottata (per gli insonni che nel silenzio della notte vagano tra il letto e il frigo in cerca di un qualche sollievo alle loro pene).
Insomma la mpustarella è quello che in italiano si chiama spuntino, che serve soprattutto a suppuntà, ovvero a “sostenere” (quasi “puntare da sotto”), uno stomaco che brontola. È per questo che Enrico Malato, contestando alcune derivazioni invero poco fondate, faceva derivare la parola dal verbo mpustà in un senso traslato di “assestare”, “mettere a sesto”.
Il verbo effettivamente si adoperava già nell’Ottocento per indicare, tra l’altro, “appoggiare travi, archi etc.”, e infatti la mposta, poco più d’un secolo fa, era “l’impostatura di un arco o di una volta” (Andreoli).
In questo senso dunque mpustarella deriverebbe da “impostare” nel senso di “mettere sotto”. È a questo che pensiamo quando parliamo di suppuntà ’o stommaco.
Ma nel nostro caso c’è qualcosa (il companatico) che non si mette “sotto”, quanto piuttosto “in”, “dentro”, “in mezzo”. E mpustà significa anche “impostare” una lettera (ahimé anche questa oggi espressione in via di estinzione, giacché la posta ormai viaggia per lo più telematicamente), cioè appunto “mettere dentro”.
Proprio il D’Ascoli che abbiamo citato all’inizio vede la mpustarella come diminutivo di mposta, “dall’idea della fetta di companatico che viene inserita nel panino aperto”.
Perché la mposta, nel napoletano moderno (del Nocevento, intendiamo), è la “suola di rinforzo che s’inserisce fra due altre”.
Dunque la mpustarella potrebbe anche venire dall’ambiente dei calzolai, i solachianielle.
È d’obbligo una breve parentesi per avvertire chi non lo sapesse che il solachianiello (“che risuola pianelle”, scarpe) non va confuso con lo scarparo. Quest’ultimo le scarpe le costruiva, mentre il solachianiello riparava le calzature. Il mestiere è ancora vivo, anche se meno diffuso di una volta, quando le scarpe si riparavano, si risuolavano, si rinforzavano perché se ne compravano molte di meno.
Quanti di noi ricordano di aver portato a riparare delle scarpe che tenevano famma, come dicevamo scherzosamente quando si aprivano sul davanti (specie quelle dei ragazzi, che usavano giocare a pallone per strada) dopo che si era consumata la parte anteriore, perché quella parte anteriore della scarpa ci pareva simile a una bocca aperta pronta a mangiare!
Era allora che il solachianiello inseriva una suoletta fra le due suole sul davanti per rinforzare il tutto (che poi sarebbe stato unificato col mastice e con quei chiodini microscopici detti da noi semmenzelle, o forse con quegli altri chiodini dalla testa piatta e abnorme detti centrelle).
Ebbene, come non pensare che la mposta (dal latino impositam, “posta dentro”) abbia dato luogo alla mpustarella, l’inserimento di una fetta di prosciutto o di salame fra le due “suole” costituite dalle due metà di un panino o dalle due fette di pane all’uopo tagliate?
Il termine, il quale, come s’è già capito, è una formazione novecentesca (giacché i vocabolari dell’Ottocento non lo riportano), potrebbe essere stato il frutto di un’amicizia tra un putecaro e un solachianiello, o magari tra uno di questi due e un cliente di entrambi.
Lasciateci sognare: un cliente, dopo essere stato dal solachianiello per ordinargli una riparazione consistente in una mposta con cui rinforzare le scarpe consumate, va dal putecaro (o anche casadduoglio, che vende caso, cacio, e uoglio, olio) e gli fa: “ ’On Pascalì, m’aggi’ a suppuntà nu poco ’o stommaco. Faciteme na specie ’e mposta cu na fella ’e prusutto rint’a nu piezzo ’e pane. Ma ha dda essere piccerella. Na mpustarella, va’ ”.
Sappiamo che la scienza non si fa con la fantasia, ma è vero anche che molti vocaboli sono nati in modi non dissimili da quello che ci siamo divertiti ad immaginare.