Mentre continua senza tregua la caccia al misterioso pianeta X, sempre più gli astronomi si pongono il problema di trovare nuovi strumenti a supporto dell’ardua impresa di scovare esopianeti sconosciuti.
Ora un metodo completamente innovativo si aggiunge alla cassetta degli attrezzi dei cacciatori di pianeti: è quello elaborato da tre ricercatori americani, Jonathan Gagné, Peter Gao e Peter Plavchan, che hanno appena pubblicato i risultati del loro lavoro su Astrophysical Journal.
Il nuovo strumento ha come punto di partenza un grande classico della ricerca planetaria: il metodo delle velocità radiali, ad oggi la tecnica più affermata, che ha già contribuito a individuare centinaia di esopianeti.
Come dice la parola, questo metodo utilizza la prevista velocità dei pianeti, e i suoi effetti sui corpi celesti circostanti.
Tutti i pianeti sono influenzati dalla gravità della stella attorno a cui orbitano; ed è proprio grazie a questa forza di gravità che riescono a mantenere la loro traiettoria.
Il metodo delle velocità radiali sfrutta il fatto che anche il pianeta orbitante influenza a sua volta la sua stella. Questo genera leggere oscillazioni che gli astronomi sono in grado di misurare, risalendo così alla fonte e individuando il pianeta “nascosto”.
Ma non sempre questa tecnica di misurazione indiretta funziona. Per le stelle con massa inferiore, in particolare, spesso la velocità radiale può portare a falsi positivi – in altre parole, può trovare qualcosa che sembra un pianeta ma non lo è.
Ed è proprio questo il problema che Gagné, Gao e Plavchan hanno cercato di risolvere. Il loro metodo sfrutta il principio della velocità radiale, ma opera a differenti lunghezze d’onda, più ampie.
“Passando dallo spettro del visibile a quello vicino all’infrarosso – spiega Jonathan Gagné, l’effetto oscillatorio causato da un pianeta orbitante rimane lo stesso, a prescindere dalla lunghezza d’onda. Ma guardare nell’infrarosso ci permette di escludere i falsi positivi causati dalle macchie solari o da altri fenomeni che potrebbero ingannare sull’effettiva presenza di un pianeta”.
In pratica i fattori per così dire di disturbo, che nella luce visibile possono sembrare esopianeti, appaiono in modo diverso nella banda vicino all’infrarosso.
Gagné e colleghi hanno quindi elaborato un nuovo strumento (immagine a destra) per applicare il metodo delle velocità radiali a lunghezze d’onda più ampie, in modo da poter osservare potenziali pianeti nell’infrarosso.
Gli astronomi hanno poi esaminato 32 stelle di piccola massa implementando questo strumento nell’Infrared Telescope Facility della NASA, alle Hawaii. I risultati hanno confermato diversi pianeti conosciuti, e hanno identificato alcuni nuovi candidati.
“Questo mostra che il nostro strumento per la caccia di pianeti è preciso – commenta Peter Gao – e potrebbe essere integrato agli attuali metodi utilizzati. Per noi è incredibile pensare che fino a due decadi avevamo appena la conferma dell’esistenza degli esopianeti, mentre oggi siamo in grado di utilizzare metodi raffinati per individuarli”.
Lo studio su Astrophysical Journal è un’ulteriore conferma dell’importanza di integrare l’osservazione diretta con i modelli teorici.
Approccio utilizzato recentemente proprio rispetto al protagonista del momento sulla scena degli esopianeti, il già citato Pianeta X: utilizzando un modello al computer creato per lo studio dell’evoluzione dei pianeti al di fuori del Sistema Solare, due astrofisici svizzeri dell’Università di Berna hanno tracciato l’identikit del famigerato nono pianeta. Stabilendo che, se dovesse esistere, il pianeta avrebbe un’atmosfera di elio e idrogeno, un mantello composto di ghiaccio e un nucleo di ferro.
Con il metodo elaborato da Gagné, Gao e Plavchan, sarà forse possibile descrivere i “connotati” anche di nuovi esopianeti. Aumentando sempre più la nostra conoscenza di questi inquilini extrasolari.