Il buio, la sala, l’odore delle sigarette, colpi assordanti e poi risate. Lo spettatore non sa dove sarà portato con la mente sino alle prime battute di Antonio, personaggio di discutibile rispetto, tanto ambiguo quanto completo.
Antonio, interpretato da Stefano Meglio, è il classico “signorotto” di quartiere, titolare di un locale di ristorazione, dai tratti guappeschi abilmente conditi dall’ipocrisia perbenista di facciata tipica della borghesia media degli anni settanta. Si, siamo negli anni settanta, lo capiamo dalle notizie diffuse dalla radio in sottofondo, nomi del calibro di Aldo Moro e Pier Paolo Pasolini risuonano nell’aria; abbracciamo il decennio più bello e drammatico della storia italiana. Le notizie radiofoniche ci rimandano subitaneamente al 1974, precisamente a Piazza della Loggia a Brescia, quando, durante una manifestazione contro il terrorismo neofascista ci fu un attentato che costò ben otto vittime.
Accanto ad Antonio ci sono Massimo, interpretato da Andrea Vellotti, il fratello minore e protetto. Un personaggio triste e mesto, contraddistinto da un forte conflitto interiore fra ciò che “per coscienza sociale” dovrebbe fare, fra la strada da percorrere per “essere normale” e la deviazione che logora la sua anima, quella deviazione rappresentata da Emilio, il giovane lavapiatti interpretato da Francesco Di Leva. Emilio è un giovane di appena 25 anni che, per mettere qualcosina da parte, lavora nel ristorante di Antonio, con quei soldi andrà a Londra, dove essere gay non rappresenterà più un problema, dove potrà confrontarsi con una società senza doversi nascondere. Emilio, a differenza di Massimo, sa di essere omosessuale e sa benissimo che cosa significhi in Italia e in particolare al Sud, dove la mentalità non aiuta la sua posizione, conosce le storie di violenza che contraddistinguono quelli come lui, dai quali Massimo inizialmente prende le distanze con violenza.
La colonna sonora dello spettacolo arricchisce la scena di per sé tanto asciutta quanto metaforicamente forte; l’amicizia amorosa fra Massimo ed Emilio nasce sulle note di “Crocodile Rock” seguita da un bacio al quale Massimo reagisce con violenza. Una violenza che non gli appartiene, un tale impeto che porta in scena la sua contraddizione interiore, è li, tangibile, si vede, il sentimento, la sofferenza della repressione si tocca con mano, diventa parte della scena, li accanto a Emilio, disteso per terra, atterrito dai calci dell’amato. Inaccettabile per Massimo la consapevolezza di essere omosessuale, non è possibile dare una delusione ad Antonio, fratello iperprotettivo, quell’Antonio che smorza i toni drammatici attraverso la comicità e il folklore tipici della napoletanità, quell’amato/odiato fratello che a quelli come Emilio li “scomma di sangue”, l’adorato fratello che sottolinea quasi nevroticamente che “tutto quello che fa lo fa per te Massimo”. Il prezioso fratello che, incurante della tristezza emanata dagli occhi di Massimo, continua freneticamente a organizzare il matrimonio fra Massimo e Annarella, perché è così che si raggiunge la vetta, così che si afferma un uomo, con un buon matrimonio e la costruzione di una famiglia onorevole. Non sono ammesse deviazioni al percorso e non saranno ammesse in questo caso.
Intanto la relazione fra Massimo ed Emilio va avanti, gli incontri fra i due fluiscono sulla scena come una danza tribale, corpi denudati al suono di “Somebody to Love” si abbracciano fortemente e alla fine si stringono in un amplesso celato quanto evidente nel silenzio e nello stupore della sala circostante.
Massimo ha ormai accettato l’altra faccia della sua medaglia, è “ricchione”, così si diceva a Napoli e come tale deve nascondersi, si destreggia fra appuntamenti con Anna, la sua futura sposa e incontri sessuali con il giovane garzone. Le sedie della scena, alla fine di ogni amplesso, vengono riposte puntualmente al proprio posto, quasi come un voler sottolineare il ritorno alla convenzione, a quella convenzione imposta dal contesto sociale.
Intanto anche Antonio e Massimo coltivano il loro rapporto, fra la sudditanza psicologica di quest’ultimo e l’autorità sconfinata, goffa e bigotta di Antonio che sulle note della “Boheme” di Aznavour percorre insieme al fratello i ricordi del passato nel silenzio buio della contemplazione alleviato dalle luci delle candele tenute dai due protagonisti. Non c’è nulla sulla scena, ma sappiamo benissimo dove sono, la musica nell’aria coinvolge ogni singolo respiro ma ci pensa Antonio a smorzare i toni, non vuole affatto un commercialista perché non vuole far vedere “i fatti suoi”.
Lo spettacolo si conclude con il tripudio dell’ ipocrisia, il matrimonio di Massimo, organizzato nei minimi particolari da Antonio nella totale indifferenza del fratello; Emilio servirà i tavoli e regalerà a Massimo, come suo personalissimo dono di nozze, il suo futuro “Non parto più”; attenderà Massimo al suo rientro dalla luna di miele aspettando un souvenir, una gondola da Venezia. La sua gioventù, però, non ha fatto i conti con la società. Qualcuno avverte Antonio che cade nell’infinita tristezza, nessuna rabbia per il suo protetto fratello, si è fatto condizionare, non è colpa sua, lui è sempre stato normale. Sulla scena il silenzio assordante, i mille pensieri Antonio prendono forma, si palpano, “faciteme nu piacere, nun dicite niente a nisciuno”. Un uomo ferito nel suo orgoglio, nella sua funzione di fratello protettivo, un uomo distrutto in segreto ma compatto e indissolubile in pubblico. Sa bene che il fratello è stato condizionato, come ai tempi della scuola, allora c’è da fare un unico appunto al fratello “O munn e difficile” tutti abbiamo “nu fetent e merd” che vuole uscire allo scoperto, ma sta a noi tenerlo a bada, non permettergli di prendere il sopravvento. Frasi forti, che descrivono perfettamente la cosa giusta da fare, pensare ad Anna, alla sua famiglia e a un figlio, le chiacchiere devono essere subito messe a tacere, così come quella passione per Emilio. Emilio, che per amore lascerà in quel ristorante, le sue passioni, le sue aspettative e, purtroppo, la sua stessa esistenza, soppressa dal pregiudizio e dalla vergogna che stavolta porta il volto di Antonio. C’est fini. Ipocrisia è il testo della musica finale che accompagna la sala per la scena commovente, delicata, estremamente forte del finale che racconta una storia vecchia si, ma ancora troppo attuale, una scena che pone lo sguardo sul muro della vergogna costruito abilmente mattone per mattone dal bigottismo e dai pregiudizi verso la diversità di qualsiasi genere.
Abbiamo intervistato uno dei protagonisti dello spettacolo, Stefano Meglio, che ha interpretato Antonio, il personaggio più controverso e duro della rappresentazione per capire meglio le difficoltà del portare in scena una tematica così delicata.
Cosa è cambiato dagli anni settanta ad oggi in Italia dal palcoscenico alla realtà?
Una curiosità: la scenografia è volutamente così scarna? Per lasciare spazio alla fantasia e alla metafora?
Quanto lavoro c’è dietro “Dodici Baci sulla Bocca”?
Quali altre tappe sono previste?
“Dodici Baci sulla Bocca” racconta una storia come tante altre e, forse, non diversa da tante altre, ma è una storia che, ancora oggi, fa discutere. Questo, vuol dire che, in fondo, da quel palcoscenico degli anni settanta alla sala circostante, tranne il modo di vestire, forse non è cambiato poi così tanto.