Pasquale Fameli, giovane calabrese, dottorando in Arti Visive (è del 1986) presso l’Università di Bologna, ha pubblicato un bel volume (Gian Paolo Roffi. La quadratura del cerchio, Campanotto ed., 2016) formato da tre capitoli (Una poesia del corpo/un corpo di poesia; Schizografia, una sintassi dei frammenti; La parola alle cose. Oggetti di poesia) per dissertare sulla poesia di Gian Paolo Roffi, un altro bolognese, ma di una generazione precedente (Roffi è del ’43) che ha operato nell’orbita della cosiddetta “poesia totale”. Già dal titolo Fameli ci fa comprendere in quale direzione vuole portare il lettore con questa presentazione alle poesie verbovisuali del poeta bolognese, a quella specie di rompicapo che è stata, appunto, “la quadratura del cerchio” fin dall’antichità: un problema primordiale della geometria, costellato di tentativi e relativi fallimenti nel tempo, a iosa.
Ma qui, citando Ferdinand Von Lindemman, essa è assunta come metafora di vita: sta ad indicare un’impresa impossibile, come impossibile sembra sia diventato per la poesia di affermarsi nella realtà odierna di una società che sembra aver abbandonato la cultura per far posto a un mercato più vieto in una torre di Babele (nessuno, comprende, nessuno), divenendo così un apparato di “nicchia”, un’arte elitaria che sempre più sovente viene letta e compresa solo dagli addetti ai lavori. Ancor più ardua sembra (nonostante da più parti si decreti un ottimo stato di salute, mentre invece si reca spesso dal medico) la condizione della poesia visuale, di cui Roffi è da decenni un importante rappresentante.
L’impossibilità, in questo caso, non è tanto dovuta alla mancanza di comunicazione, che pure si fa notare, in questa realtà postmoderna dove tutto è uguale a tutto, dove tutto è il contrario di tutto e viceversa. Insomma, senza una logica o un discorso critico che sottrae le parole, i segni, le immagini dalla struttura della semantica ancora legata all’antico, che non si è ancora “adeguata” ai nuovi strumenti creativi e comunicativi. Ed è ovvio che la poesia visuale di Roffi, come tutta l’area creativa che opera nell’ambito visuale, non può che affidarsi al taglio di immagini geometriche sottratte al modulo antico, appunto, di rappresentazione, per una palingenesi di un segno che fa della ripetizione (forse proprio per rifuggire da quella semiotica ormai senza una logica) il suo credo, di allontanare la parola dal suo perenne ruolo convenzionale e stereotipato che oggi, in una epoca di caos, ha perso di valore.
Il tentativo è per azzerare continuamente il linguaggio e il rapporto tra segno e significato, nel tentativo di poter entrare nella struttura della parola (quando si veste da poeta lineare o verbale, che dir si voglia; o quando mette i panni del poeta visuale o sonoro: già, perché un’altra attività creativa di Roffi è la poesia fonetico-sonora; in tale direzione ha prodotto diversi dischi, CD e videoclip), ricostruirla a partire dai segni elementari. E quando questa assume l’aspetto di una sintassi tradizionale, ecco che Roffi, come un cesellatore o uno squartatore della materia, sempre nella logica di una presentazione geometrica (esemplari sono le poesie visuali a colori contenute nella parte centrale di questo volume), si mette a tagliare il segno per una ricomposizione incondizionata dalla codificazione che un linguaggio tradizionale reca in sé. La lingua italiana, diceva il grande poeta Emilio Villa, è ormai arcisunta, ha perso la sua spinta in avanti. E questa lezione Roffi l’ha bene in mente, per cui comincia a manipolare incondizionatamente il formale rapporto esistente tra segno e immagine, costruendo una serie di frammenti per una diversa definizione della narrazione originale.
«Rimandare al referente per mettere in crisi la parola, perdersi tra le cose di tutti i giorni, recuperare l’io solo nella sua sintomaticità psicofisica: sono questi i motivi dei versi scritti da Gian Paolo Roffi lungo il corso di un decennio, dal 1969 al 1979, poi ordinatamente riuniti nel 1984 sotto il titolo di Reattivi. Una poesia fredda, cruda, micro-violenta [nella migliore tradizione avanguardista e sperimentale, di ricerca, che poi e’ sempre stato il terreno su cui si mosso Roffi], in cui l’io lirico si annulla non solo nell’insignificanza di dettagli quotidiani senza valore, ma anche e soprattutto nelle abiezioni corporali, nelle vergogne, nelle ripulsioni del corpo nei confronti della sua stessa esistenza» (P. Fameli, Una poesia del corpo/un corpo di poesia, in Gian Paolo Roffi…, op. cit., p. 11).
Quella lineare possiamo definirla frammentaria, nell’accezione ungarettiana o minimalista elementare alla Sol Lewitt, ma con la medesima percezione di un’esistenza inefficace, come si evince dai versi di una delle sole due poesie lineari inserite: «quarto d’ora tirato / da scuola alla stazione / mentre la rabbia sale / dalle dita alle spalle / con un formicolio / e le caviglie / che fanno un male cane / (troppo in fretta) / (se no si perde il treno) / è sempre la ricerca / d’una collocazione / me lo sono detto…, pp. 12-13).
Conoscendo Roffi da circa un ventennio, non posso che essere d’accordo con Fameli: quella di Roffi è una poesia che lacera la struttura corporea della parola per un nuovo corpo della stessa parola, dissidente, dissacrante, smitizzata, ma propositiva.