Oggi ci è venuto a trovare il fantasma della poetessa verbovisuale e pioniera dell’arte al femminile riconosciuta a livello internazionale, Mirella Bentivoglio, scomparsa a Roma da pochi mesi. Era nata a Klagenfurt, in Austria, per sbaglio il 28 marzo 1922, da genitori italiani. Giovanissima si affaccia nel mondo della poesia pubblicando una raccolta dal titolo Giardino (Vanni Scheiwiller, 1943). Passano 25 anni per dare alle stampe un nuovo volume di poesie: Calendario (Vallecchi, 1968). Curatrice di numerose mostre in varie parti del mondo, tra le sue pubblicazioni ricordiamo, oltre a Calendario, Monumento, poesia sperimentale (1968); La collezione Astaldi (1971); Jet P68, poesie (1976); Un albero di pagine (1992); la cartella Da pagina a spazio (1997); La microscrittura (2012); La guerra in piccolo. Scritti ritrovati 1943-45, saggistica (2015).
Negli anni Sessanta inizia a produrre poesie verbo visuali e si fa promotrice di un impegno a sostegno dell’arte al femminile che propone, nel 1978, alla Biennale di Venezia, una mostra di ottanta artiste donne, Materializzazione del linguaggio. Ha esposto in prestigiosi luoghi d’arte: MoMA, Istituto Italiano di Cultura di New York; Biennale di San Paolo; National Museum of Women in the Arts di Washington. Nel 2011 ha donato al Mart di Rovereto la sua ricchissima collezione-archivio di arte tutta al femminile, raccolta
in anni di impegno come artista e critica.Ho letto da qualche parte che la considerano una scultrice.
Sono considerata, erroneamente, uno scultore, sia pure atipico; in realtà il mio lavoro si svolge, oggi come ieri, in un ambito totalmente “poetico”: tra linguaggio e immagine, tra linguaggio e materia, tra linguaggio e oggetto, tra linguaggio e ambiente.
Dopo aver pubblicato un volume di poesie cosiddette lineari (Giardino) nel 1943, come nasce il bisogno di sperimentare la poesia verbovisuale molto radicata in Italia negli anni ’60, il bisogno di mescolare parola e immagine?
Il ricorso all’immagine è stato una necessità di molti poeti d’avanguardia in tutto il mondo negli anni ’60, ed io non ero da meno. Ma lavoravo per conto mio, non avevo contatti con gli altri poeti visuali. Io vivevo a Roma e a Roma non si è mai formato un gruppo cui far riferimento, entrare in contatto, come si annoveravano in diverse città italiane: “Tool” a Milano, “Gruppo 70” a Firenze, “Anaeccetera” a Genova, “Continuum” a Napoli, “Gruppo N” a Padova, per fare qualche nome. Per me non era un problema: ho sempre rivendicato per me una totale libertà di muovermi. Probabilmente il mio approccio è stato dettato dall’inconscio di una parola-simbolo. D’altronde l’archetipo linguistico è pittografico, ma non ho mai fatto a meno della lettera alfabetica che per me è fondamentale.
Come nascono le sue opere?
Dilatando l’uso della parola all’uso del simbolo, scegliendo simboli universali, prelinguistici; matrici dei significanti, o, meglio ancora, matrici dei significati plurimi, dei significati aperti. Uso la parola come immagine dal 1966. E mai più di una parola per volta. Ma oggi uso quasi esclusivamente la pietra. Ho dilatato l’uso della parola all’uso del simbolo: scelgo simboli universali, prelinguistici; matrici dei significanti, o, meglio ancora, matrici dei significati plurimi, dei significati aperti. Utilizzo la forma dell’uovo come mio segno costante, emblema della vita, simbolo cosmico della perpetuità e dell’origine, uovo archetipo.
E come definirebbe il suo lavoro artistico?
Il mio lavoro è una celebrazione della cultura, in senso antropologico; il tentativo, sempre più desoggettivizzato, di una consacrazione trasgressiva dei segni della comunicazione. Il mio lavoro si svolge su due fronti. Da una parte la progettazione di strutture simboliche a misura architettonica, dall’altra teatro d’artista, operazioni miste compiute con mezzi audio visuali… In comune le due espressioni hanno la destinazione pubblica, la fuga dalla galleria.
In una intervista rilasciata a Toti O’ Brien, inserita in Mother is an artist. A profile of visual poet Mirella Bentivoglio (Literary Mama, 2014), ha affermato che con la maternità, cioè con la nascita delle sue figlie, il linguaggio di una donna cambia. In che senso?
lo ho tre figlie e se sono diventata artista lo devo proprio alla maternità. Infatti tutta la problematica del linguaggio – cosi importante nel mio lavoro – è una scoperta che mi deriva da quella comunicazione particolare che una madre stabilisce con i figli. Avevo completamente perso un buon rapporto con il linguaggio codificato. Sentivo il bisogno di dilatare qualcosa e di contrarre altro, di dare meno spazio alla parola e più al significato. Ma non sapevo come, era come camminare sulla luna, non avevo modelli da seguire. Per fortuna le mie bambine mi hanno guidata: mi hanno aiutata a trovare la strada.
Come ci si riesce?
Con alcune costanti dipendenti dal particolare approccio della creatività femminile nei confronti del linguaggio-immagine. C’è da credere a un rapporto profondo tra la donna e l’alfabetoe non solo perché per prima ne trasmette la forma ai figli.
Oggi la donna-artista è uscita dalla sfera della sublimazione, dall’oblio, per affermare la sua presenza nella vita pubblica, nell’arte in genere. Secondo lei, come si contrappone alla ancora concreta supremazia dell’uomo artista?
Già smaterializzata in passato nella sublimità astratta della sua pubblica immagine, parallela alla sua pubblica assenza; privatamente confinata nel contatto quotidiano e esclusivo con le materie, la donna oggi pone tutta se stessa a un mondo de-realizzato nei meccanismi ripetitivi. Le nuove forme di poesia sono la riappropriazione di ciò che lei, insieme con l’uomo, ha elaborato dalle sedi primarie dell’esistenza, il linguaggio.
Qual è ? se c’è ?, la connotazione della poesia creata dalle donne?
La poesia della donna tende spesso alla specularità, circolarità, complementarietà, primarizzazione sottile o violenta. E se è vero che nel suo risultato finale l’espressione poetica, di uomo o di donna che sia, è sempre totale, ermafrodita, è anche vero che il raggruppamento di molte opere provenienti da tempi e da luoghi disparati evidenzia certe costanti di scelte e di procedimenti. Scrittura-spazio e suono-tempo, aggiungerei, che ricreano l’unità sotto il segno di uno strano ritmo intessuto. Una connotazione veramente particolare di queste operazioni femminili è di trasformare il linguaggio in tessile. Forse una prova di penetrazione nell’inconscio; e dell’incontro della donna con il suo mito. Il filo delle Parche, di Arianna, di Aracne, il filo di un discorso spezzato, che sembra ora venire ripreso.
Il tema ricorrente nelle sue opere sono elementi della natura. Penso ad un fiore, un uovo. Ad esempio, nella poesia visuale “Fiore Nero” è commemorato il funerale dell’uomo di colore Donald Rick Dowell ucciso dai poliziotti. Qual è il senso di quest’opera a sfondo violento?
È la ridefinizione del rapporto tra vita e morte, i cicli vitali della natura, rimarcare l’accoppiamento natura-morte che spesso dimentichiamo. Le forme della natura diventano protagonisti simbolici per una rilettura di alcuni fenomeni sociali. L’artificio dei protagonisti che si eleva sulla realtà, accomuna semiologicamente il nero della pelle e del lutto. L’opera denuncia, con l’annerimento degli elementi vegetali, l’offesa recata dal razzismo alla natura. Inoltre il ritaglio presente svela nella fotografia del funerale stesso i contorni di un fiore: perciò riscontra e offre la ricostituita naturalità della sfida poetica.
Abbiamo concluso. Mi fa piacere che sia venuta a trovarmi così presto dalla sua morte, di solito i miei fantasmi mi vengono a trovare quando sono belli stagionati. Poco male: mi ha procurato l’occasione di omaggiare una grande artista, una grande poetessa visuale.