Ieri abbiamo presentato l’ultimo volume di poesia, Da mozzare, di Antonio Spagnuolo, classe 1931, decano dei poeti napoletani, con una attività alle spalle utrasessantennale, una trentina i volumi di poesia pubblicati. Chi ha letto l’articolo sa che il volume focalizza l’attenzione sul dolore, sull’assenza di un caro estinto, tema spesso ricorrente nella poesia del Novecento, ricorrente anche nel suo penultimo volume, L’ultimo tocco (Puntoacapo, 2015). Non si limitano a definire solo il dolore questi due volumi spagnuoliani, ma si portano al di là del dolore stesso, alla ricerca di quella realtà che ti permette di vivere nel ricordo ma senza cadere nel limbo dell’inutilità.
Queste ultime poesie di Spagnuolo si portano oltre il dolore, con distrazioni per immagini riflessive nel tentativo di «comprenderlo come parte ineliminabile della condizione umana […] dell’amore terreno, perduto […], “istruzioni per la vita e per la poesia” scritte, per così dire, da un Orfeo che sa irridere se stesso e da un Ulisse consapevole degli scogli contro i quali può infrangersi il suo perenne spronare» (Anna Maria Curci, Nota di lettura a L’ultimo tocco, in «Poetarum Silva».
D. Nel suo ultimo volume di poesie, qui preso in considerazione, Da mozzare, il tema si dipana sul dolore o meglio sull’assenza di un caro estinto, nel suo caso di sua moglie. Come ci si riesce ad estrinsecare il dolore?
R. La perdita di una donna ancora innamorata, dolce e culturalmente ricca, con la quale ho trascorso ben 63 anni di vita in comune, è stata un duro colpo dal quale non riesco a svincolarmi, anche a distanza di circa quattro anni. L’angoscia corrode quotidianamente e il dolore sussurra frasi delicatamente sospese tra il sogno e l’illusione, tra la rabbia e le memorie, per divenire pungolo esistenziale.
D. In questi momenti tragici la poesia aiuta o cosa?
R. La poesia è divenuta per me, in questi ultimi tempi, quasi un colloquio necessario con la figura eterea di chi non è più presente materialmente parlando. L’assenza corporale, l’assenza della “carne”, stimola le circonvoluzioni cerebrali per la ricerca di una parola indicibile ed eterna.Scommettere tutto sulla poesia, alla quale ho dedicato tutto me stesso. Nella poesia àncora di salvezza, ho trovato la ragion di vita, pur tra tante illusioni e delusioni che spesso gettano in uno stato d’animo di sconforto se non di vera e propria angoscia. E sull’altare della poesia ho sacrificato le parole e il mio stesso destino di uomo. In essa l’unico strumento che consentisse non solo di vivere, ma anche di sopravvivere, di vedere e analizzare la morte mali e di dirli come in una sorta di esorcismo liberatorio. La scrittura poetica come diagnosi e terapia, sul dolore e contro il dolore. La poesia è, difatti, inveramento del dolore nelle forme delle parole. Il dolore è la parola che lo dice, la parola nella quale il dolore si traduce inverandovisi e prendendo forma. E allora la parola non è la parola comune, ma è la parola nella quale quel dolore, quella sofferenza si incarna.
D. Si può affermare – secondo noi – che in queste situazioni si rimane comunque da soli col proprio dolore, quant’anche fossimo circondati dall’affetto di parenti, amici, conoscenti. È d’accordo?
R. Sono d’accordo. Malgrado abbia il caloroso affetto di tre figli meravigliosi e di tre nipoti la solitudine incatena inesorabilmente, e le ore trascorrono più lentamente nella illusione di ripercorrere i ricordi che si rimestano nella visione onirico.
D. Terminando questa breve intervista, a proposito dell’ambiente in cui si vive, qual è il suo rapporto con Napoli? Personalità letterarie come la sua, con un grosso bagaglio culturale alle spalle (pensiamo ai vari Capasso, Vitiello, Moriconi, Piscopo, Piemontese, etc.) quale eredità lasceranno nell’immediato alle nuove generazioni, ammesso che le nuove generazioni siano pronte a recepire il messaggio?
R. Il mio rapporto con Napoli è stato nel passato abbastanza equilibrato, specialmente con le valide amicizie di Franco Capasso, che ho ammirato per il suo sincero affetto, di Ciro Vitiello, con il quale ho condiviso numerose esperienze, di Ugo Piscopo, che ritengo un vero amico ed un ottimo focolaio di cultura, di Felice Piemontese, con il quale ho intessuto numerosi interventi. Ma i maggiori successi e le migliori affermazioni le ho ricevute dai critici e dai poeti di tutta Italia. Le nuove generazioni di sedicenti poeti purtroppo penso e credo che non abbiano compreso che bisogna leggere e approfondire tutta la ricerca che sino ad oggi la poesia con la P maiuscola ha offerto. I giovani sono quasi tutti autocelebrativi, si crogiolano in testi che non hanno alcun valore e godono nel laudarsi vicendevolmente , fuori da una “critica” che sia veramente valida, e che oggi non esiste proprio.