L’ultimo volume di Antonio Spagnuolo, Da mozzare, 35 poesie prefate da Lorenzo Spurio (PoetiKanten Edizioni, 2016), che sin dal primo testo (Sussurro) ci fa capire il tema centrale che collega i restanti testi: il dolore per la perdita della moglie Elena. Giustamente Spurio ci delinea i due aspetti dell’autore, l’uomo e il poeta: «L’uomo anela al recupero di un qualsivoglia contatto fisico con l’amata, una carezza, un bacio, un “tocco” anche fugace, mancanza che non solo lo indebolisce ma ne ossessiona le sue giornate. Di contro, da uomo illuminato, cultore della poesia e dell’arte creativa non fa altro che partire dalla sua condizione di isolamento e solitudine nella stesura di liriche dove è la pregnanza sensazionale e l’accecante sentimentalismo a primeggiare» (pp. 3-4).
Non è ovviamente nuovo il tema del dolore e di conseguenza dell’assenza nella poesia, come vedremo, se anche ci limitassimo soltanto al Novecento. Ma prima è bene sottolineare che, come asserisce Tolstoj in Guerra e pace, se «non ci fosse la sofferenza, l’uomo non conoscerebbe i propri limiti, non conoscerebbe se stesso» E Spagnuolo (nato a Napoli nel 1931), che vanta una carriera di poeta ultrasessantennale (il suo primo volume, Ore del tempo perduto, risale al lontano 1953) conosce bene questa lezione: «… Anche il distacco ha un presentimento | nel verbo pronunciato, fra le labbra incredule, | ed è sospeso tra i fogli per incidere | il richiamo. | Rapito dalle ombre mostro il segno del tempo | rincorrendo l’incognito confine | incastrato alle incertezze…» (Capriccio, p. 31). Il dolore, quando è patito dalla perdita dei propri cari, per forza di cose annulla la coscienza, e il poeta si può ritenere fortunato perché nel vederlo rappresentato in un testo riesce a sdrammatizzarlo. Ce lo insegna Hölderlin: «È cresciuto nel dolore questo massimo amore che il mio cuore seppe: il dolce richiamo dell’umanità».
Limitandoci al lutto, come del Nostro, potremmo limitarci ai versi di Montale dopo la morte della moglie (Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale | e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino) e a quelli di Ungaretti, dopo la morte del figlio di nove anni (… Nove anni, chiuso cerchio, | Nove anni cui né giorni, né minuti | Mai più s’aggiungeranno : | In essi s’alimenta | L’unico fuoco della mia speranza… (Gridasti : soffoco…).
Dunque, dal dolore di un proprio caro se ne esce con la speranza diacronica che si oppone alla sconfitta calzante di un’entropia di sentimenti per darci una visione oggettivata della propria sfera privata: «Lascio entrare ogni pensiero tra le riga | che fiammeggiano pur di trovare il segno | di nuove cifre, predisposte al ritorno. | Ho gli anni sgualciti nei ricordi, | tra le metamorfosi, e di colpo ho l’impressione | di aver prosciugato anche il timore | delle preghiere… (A. S., Metamorfosi, p. 38). Il dolore che ha assalito Spagnuolo (o per meglio dire l’assenza dell’amata estinta), minandone quelle poche certezze è una letania laica in tutta coscienza, quasi una distonia, un canto lirico tra eros e thanatos (tra amore e psiche) nel tentativo di sconfiggere la morte: per cui «contrappone la saggezza di un intellettuale di elevata caratura e la comprensione attenta di un presente che cambia, con i suoi densi accumuli di passato» (Spurio, pref,, p. 7). Il dolore è quasi invocato sottovoce, con pudore, intimamente, in quanto Spagnuolo sa bene che neanche la poesia riesce a consolare e si rifugge nel ricordo non nostalgico però, ripercorrendo fatti e momenti di vita vissuta con la sua Aspasia.